Boumour e Igan, un po’ trascinandolo di peso, un po’ sorreggendolo, lo fecero entrare nell’edificio. Percorsero uno stretto corridoio, entrarono in locale vasto e poco illuminato, il cui soffitto era altissimo e fatto di travi nude. Lo adagiarono su di un polveroso divano di plastica, i cui meccanismi idraulici si adattarono con riluttanza al contorno del suo corpo. La poca luce proveniva da due fotoglobi appesi alle travi del soffitto e illuminava i pochi mobili sparsi nel locale, e mucchi di strani oggetti tutti coperti da una specie di telo lucido e scintilante. Si accorse che sulla sua sinistra c’era un tavolo di legno. Legno! Più avanti giacevano una branda, e un antico secrétaire con un cassetto mancante, sedie di vari stili. Un caminetto macchiato di fuliggine, da cui spuntava una sbarra di ferro simile a una forca, occupava metà della parete di fronte a lui. L’intera stanza puzzava di umidità e putridume. Il pavimento scricchiolava sotto i passi dei presenti. Era anch’esso in legno!
Svengaard alzò lo sguardo verso le finestrelle da cui filtrava la luce grigia dell’alba, ogni istante sempre più brillante. Ma Svengaard sapeva che la luce del sole, anche al suo massimo, non sarebbe riuscita a scacciare l’oscurità da quella stanza. L’atmosfera era tetra; gli faceva pensare a innumerevoli persone morte, dimenticate. Le lacrime iniziarono a scorrergli sulle guance.
Che cosa mi sta succedendo? si chiese.
Udì il suono delle turbine dell’hovercraft che venivano attivate. Sentì che il veicolo si sollevava dal suolo, iniziava a muoversi… si allontanava. Harvey e Lizbeth entrarono nella stanza.
La donna guardò prima Svengaard, poi Bourhour e Igan, che si erano seduti sulla branda. Con la sua andatura cauta, si avvicinò a Svengaard, gli toccò una spalla. Notò le lacrime, segno d’umanità, e desiderò che fosse lui il dottore che l’avrebbe assistita. Forse esisteva il modo. Decise che l’avrebbe chiesto a Harvey.
«La prego, si fidi di noi,» disse a Svengaard. «Sono stati loro ad aver ucciso sua moglie e i suoi amici, non noi.»
Svengaard si ritrasse dal tocco.
Come si permette di compatirmi? pensò. Ma la donna aveva toccato qualche corda del suo animo. Sentiva di star andando in pezzi.
Un silenzio oppressivo scese sulla stanza.
Harvey si avvicinò e guidò la moglie verso una sedia.
«È di legno,» disse Lizbeth con voce piena di meraviglia, toccandone la superficie. Poi disse, «Harvey, sto morendo di fame.»
«Ci porteranno del cibo non appena avranno finito di occultare il veicolo,» rispose lui.
Lizbeth gli strinse la mano, e Svengaard osservò affascinato i movimenti nervosi delle sue dita.
In quel momento ritornarono Glisson e il vecchio, chiudendosi con fragore la porta alle spalle. L’edificio scricchiolò sotto i loro passi.
«D’ora in poi, useremo un veicolo della forestale,» annunciò Glisson. «È molto più sicuro. Ma c’è una cosa che dovreste sapere.» Il Cyborg fece scorrere il suo sguardo gelido sul volto dei presenti. «Sul tetto del rimorchio che abbiamo abbandonato la notte scorsa c’era un rivelatore.»
«Un cosa?» chiese Lizbeth.
«Un dispositivo per seguire le nostre tracce,» spiegò Glisson.
«Ohh!» Lizbeth si coprì la bocca con una mano per la paura.
«Non so da quanto vicino ci stessero seguendo,» continuò Glisson. «Sono stato modificato per portare a termine questa missione, e ho dovuto rinunciare ad alcuni miei strumenti. Può anche darsi che sappiano che siamo qui.»
Harvey scosse la testa. «Ma perché…»
«Perché non hanno tentato di catturarci?» concluse Glisson. «È ovvio: sperano che li condurremo al centro nevralgico della nostra organizzazione.» Un qualche sentimento molto simile alla rabbia turbò i lineamenti del Cyborg. «Ma può anche darsi che riusciremo a far loro una bella sorpresa.»
CAPITOLO SEDICESIMO
Nel Globo di Controllo, l’attività degli strumenti montati sulle pareti era relativamente ridotta. Calapine e Schruille della Tuyere occupavano i loro rispettivi troni. La piattaforma ruotava lentamente, permettendo ai due di avere sott’occhio l’intera superficie del globo. Le spie creavano un gioco caleidoscopico di colori sui lineamenti di Calapine: ondate successive di verdi, rossi, porpora.
L’Optimate era stanca, in preda ad un sentimento di autocommiserazione. Era sicura che gli analizzatori enzimici funzionassero difettosamente. Si chiese se quelli dell’Associazione avessero manomesso in qualche modo i computer della Farmacia.
Era inutile interpellare Schruille. Si sarebbe burlato di lei.
Su di uno schermo di fronte a Calapine, apparve il volto di Allgood. L’Optimate fece fermare la piattaforma, mentre il Capo della Sicurezza le rivolgeva un inchino e diceva, «Ho chiamato per fare rapporto, Calapine.» L’Optimate notò le profonde occhiaie di Allgood e, dal modo in cui l’uomo teneva rigidamente eretta la testa, intuì che doveva aver assunto delle droghe per vincere la stanchezza.
«Li hai trovati?» chiese Calapine.
«Sono da qualche parte sulle montagne, Calapine,» rispose Allgood. «Devono essere là.»
«Devono!» ripeté lei con sarcasmo. «Sei un ottimista piuttosto sciocco, Max.»
«Conosciamo l’ubicazione di alcuni nascondigli che potrebbero aver scelto, Calapine.»
«E per ciascuno di quelli che conoscete, ne esistono altri nove che ignorate,» ribatté acidamente l’Optimate.
«Ho fatto circondare l’intera zona, Calapine. La stiamo battendo palmo a palmo, con la massima scrupolosità. Sono lì, e noi li troveremo.»
«Max sta dicendo solo chiacchiere,» commentò Calapine sbirciando Schruille.
Quest’ultimo le scoccò un sorriso ironico, fissò Allgood attraverso il riflettore prismatico. «Max, hai trovato la fonte da cui è stato trafugato l’embrione che è stato sostituito a quello dei Durant?»
«Non ancora, Schruille.»
Allgood li fissò, con il viso che tradiva chiaramente la sua confusione per lo strano comportamento combattivo dei suoi Optimati.
«Hai fatto ricerche a Seatac?» gli domandò Calapine.
Allgood si umettò le labbra con la lingua.
«Parla!» gli ordinò bruscamente Calapine. Ahh, la paura nei suoi occhi.
«Lo stiamo facendo, Calapine, ma…»
«Pensi che siamo stati troppo precipitosi?» concluse Calapine.
Allgood scosse la testa.
«Ti stai comportando stranamente,» constatò Schruille. «Hai paura di noi?»
Allgood esitò, poi ammise, «Sì, Schruille.»
«Sì, Schruille!» lo derise Calapine.
Allgood la guardò, con la paura che era stata sopraffatta dal risentimento. «Sto facendo quel che posso, Calapine.»
Dietro la rabbia apparente di Allgood, Calapine rilevò nel suo comportamento una precisione sospetta. Sbarrò gli occhi per la meraviglia. Era davvero possibile? Guardò Schruille, chiedendosi se anche lui se ne fosse accorto.
«Max, perché ci hai chiamato?» chiese Schruille.
«Io… per fare il mio rapporto, Schruille.»
«Ma non ci hai fatto alcun rapporto.»
Con esitazione, servendosi degli strumenti che aveva di fronte, Calapine eseguì un controllo speciale su Allgood, poi lesse i risultati. Nel suo animo, l’orrore si mischiò alla rabbia. Un Cyborg! Avevano modificato Max! Il suo Max!
«Tu devi soltanto obbedire ai nostri ordini,» stava dicendo Schruille ad Allgood.
Il Capo della Sicurezza annuì, rimase in silenzio.
«Tu!» sibilò Calapine. Si sporse verso lo schermo. «Tu hai osato! Perché? Perché, Max?»
Schruille domandò perplesso, «Cosa…?»
Ma Allgood, nel momento stesso in cui Calapine gli aveva rivolto rabbiosamente le sue domande, aveva compreso di essere stato scoperto. Sapeva che era la fine, l’aveva capito dallo sguardo negli occhi di Calapine. «Ho visto… ho scoperto i cloni,» balbettò.