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Harvey era chino su Igan, e tentava di scuoterlo dal sonno. Si trovavano in un’angusta stanza dalle pareti in terra battuta, con il soffitto in travi di plasmeld, e in un angolo un unico fotoglobo che spandeva una fievole luce giallastra. Cinque materassi erano accostati alle pareti: Boumour e Igan erano sdraiati su due di essi, uno di fronte all’altro, Svengaard giaceva su un terzo; gli altri due erano vuoti.

«Si sbrighi!» implorò Harvey. «Sta male.»

Igan grugnì, si rizzò a sedere. Diede un’occhiata al cronografo — in superficie il sole era sul punto di tramontare. Erano scesi in quel nascondiglio poco prima dell’alba, dopo una notte trascorsa a percorrere a piedi, con la guida di un forestale, sentieri tra i boschi che si snodavano apparentemente all’infinito. Gli doleva ancora tutto il corpo per quell’esercizio a cui non era decisamente abituato.

Lizbeth sta male?

Erano passati tre giorni da quando le era stato impiantato l’embrione. Le altre donne che si erano sottoposte all’operazione erano guarite in fretta, ma non erano state costrette a scarpinare una notte intera su sentieri di montagna.

«La prego, faccia in fretta,» lo esortò Harvey.

«Vengo, vengo,» disse Igan. E pensò, Com’è cambiato il tono della sua voce, ora che ha bisogno di me.

Anche Boumour si mise a sedere, gli chiese, «Vuoi che venga anch’io?»

«No, tu rimarrai qui e aspetterai Glisson,» rispose Igan.

«Glisson ha detto dove stava andando?»

«A cercare una guida. Presto farà buio.»

«Ma non dorme mai?» chiese Boumour.

«Per favore!» supplicò Harvey.

«Sì, va bene!» replicò in tono brusco Igan. «Quali sono i sintomi?»

«Vomita… dice di sentirsi svenire.»

«Mi faccia prendere la mia borsa.» Igan sollevò dal pavimento una grossa borsa nera, lanciò un’occhiata a Svengaard. Il suo respiro era ancora regolare, segno che il narcotico che gli avevano somministrato prima di andare anche loro a dormire non aveva ancora esaurito il suo effetto. Bisognava prendere una decisione su Svengaard. Quell’uomo li rallentava troppo.

Harvey tirò Igan per una manica.

«Sto venendo! Si calmi!» protestò Igan. Liberò il braccio, seguì Harvey attraverso un basso foro nella parete ad un’estremità della stanza, entrò in un locale identico a quello che aveva appena lasciato. Lizbeth giaceva dal lato opposto della stanza, su un materasso sotto un singolo fotoglobo.

Harvey le si inginocchiò accanto. «Sono qui, cara.»

«Harvey,» mormorò lei. «Harvey.»

Igan si unì a loro, estrasse dalla sua borsa un apparecchio diagnostico multi-funzione. Lo poggiò sul collo di Lizbeth, lesse le cifre che erano apparse sul quadrante. «Dov’è che le fa male?» chiese.

«Ohhh,» gemè Lizbeth.

«Per favore,» disse Harvey fissando Igan. «La prego, faccia qualcosa.»

«Si allontani,» ordinò Igan.

Harvey si alzò, fece due passi indietro. «Cos’ha?» chiese con un sussurro.

Igan lo ignorò, allacciò un nastro misuratore di enzimi al polso di Lizbeth, controllò i quadranti.

«Ma cos’ha?» chiese di nuovo Harvey.

Igan staccò lo strumento da Lizbeth, lo ripose nella borsa. «Nulla.»

«Ma è…»

«Perfettamente normale. La maggior parte delle donne hanno reagito allo stesso modo. Il suo sistema enzimico sta modificandosi per adattarsi alle nuove esigenze.»

«Ma non c’è qualche…»

«Si calmi!» Igan si alzò, affrontò Harvey. «Ora ha pochissimo bisogno di prescrizioni enzimiche. E presto potrà farne del tutto a meno. Sua moglie sta meglio di lei. E potrebbe tranquillamente andare in una farmacia anche adesso. Non verrebbe riconosciuta.»

«Ma allora perché…?»

«È l’embrione. Compensa i bisogni di sua moglie per proteggere se stesso. È un processo automatico.»

«Ma Lizbeth sta male!»

«Si tratta soltanto di un lieve squilibrio ghiandolare.» Igan sollevò la borsa. «Fa parte del vecchio processo di gestazione: l’embrione le dice di produrre determinate sostanze, e sua moglie ubbidisce. Ma questo causa qualche lieve scompenso nel suo sistema ghiandolare.»

«Lei non può fare nulla?»

«Certo che potrei. Tra un po’, a sua moglie verrà una fame terribile. Le daremo qualcosa che eliminerà la nausea, e poi la faremo mangiare. Ammesso che in questo buco ci sia del cibo.»

Lizbeth gemé. «Harvey?»

Il marito le si inginocchiò di nuovo accanto. «Sì, cara?»

«Mi sento malissimo.»

«Sii paziente, tra qualche minuto ti daranno qualcosa che ti farà sentire meglio.»

«Ohhhh.»

Harvey sollevò uno sguardo rabbioso su Igan.

«Non appena possibile,» lo rassicurò il medico. «Non si preoccupi, è tutto normale.» Si girò e uscì dalla stanza.

«Cosa c’è che non va in me?» sussurrò Lizbeth.

«È l’embrione,» rispose Harvey. «Non hai sentito quel che ha detto Igan?»

«Sì. Ma mi fa male la testa.»

Igan ritornò con una capsula e un bicchiere d’acqua, si chinò verso Lizbeth. «Prenda questa. Attenuerà la nausea.»

Harvey la aiutò a sedersi sul materasso, la resse mentre Lizbeth inghiottiva la capsula.

Lizbeth fece un respiro tremulo e restituì il bicchiere. «Mi dispiace di dare tanto…»

«Non si preoccupi,» replicò Igan. Guardò Harvey. «È meglio portarla nell’altra stanza. Glisson ritornerà tra pochi minuti. Dovrebbe aver trovato del cibo e una guida.»

Harvey aiutò la moglie ad alzarsi, la sorresse mentre seguivano Igan nell’altra stanza. Là scoprirono che Svengaard era seduto sul materasso, e fissava le proprie mani legate.

«Stava ascoltando?» gli chiese Igan.

Svengaard guardò Lizbeth. «Sì.»

«Ha riflettuto su quello che è accaduto a Seatac?»

«Sì, l’ho fatto.»

«Non starà pensando di liberarlo,» obiettò Harvey.

«La sua presenza ci rallenta troppo,» disse Igan. «E non possiamo liberarlo.»

«Forse dovrei occuparmi io di lui,» ribatté Harvey.

«Lei cosa suggerisce, Durant?» chiese Boumour.

«Per noi rappresenta un pericolo,» stabilì Harvey.

«Ahh,» disse Boumour. «Allora lo lasciamo a lei.»

«Harvey!» esclamò Lizbeth. Si chiese se suo marito fosse improvvisamente impazzito. Era questa la sua reazione alla richiesta che gli aveva fatto di prendere Svengaard come proprio dottore?

Ma Harvey ricordava bene i gemiti di Lizbeth. «Se si tratta di scegliere tra lui e mio figlio, be’, è una scelta molto facile.»

Lizbeth gli strinse la mano, gli segnalò, «Cosa vuoi fare? Non puoi fare sul serio!»

«E poi, chi è lui?» chiese Harvey, fissando Igan. Ma segnalò a Lizbeth, «Aspetta. Osserva.»

Lizbeth ricevé il messaggio, non insisté.

«È un bioingegnere,» disse Harvey con voce che grondava disprezzo. «Un loro servo. Come può giustificare la sua esistenza? È un essere sterile, una vuota non-entità. Non ha futuro.»

«È questa la sua scelta?» chiese Boumour.

Svengaard sollevò lo sguardo verso Harvey. «Sta parlando di assassinarmi?» Il tono privo d’emozione della sua voce sorprese Harvey.

«Non ha niente da obiettare?» gli chiese.

Svengaard tentò di deglutire. Si sentiva la gola come fosse invasa da cotone secco. Guardò Harvey, misurando la corporatura massiccia, i possenti fasci di muscoli dell’uomo. Ricordò l’eccesso di istinto protettivo, quell’errore genetico che lo aveva reso schiavo della minima esigenza di Lizbeth.

«Perché dovrei?» replicò Svengaard, «quando la maggior parte di ciò che ha detto risponde a verità, e lei ha già deciso?»

«Come lo farà, Durant?» chiese Boumour.

«Lei cosa mi suggerisce?» replicò Harvey.

«Lo strangolamento potrebbe rivelarsi interessante,» ipotizzò Boumour, e Harvey si chiese se anche Svengaard riuscisse a percepire il tono gelido del Cyborg nella voce dell’uomo.

«Meglio rompergli il collo. È un sistema più rapido,» disse Igan. «Oppure si potrebbe usare un’iniezione letale. Nella mia borsa ne ho molte.»