Boumour si strinse nelle spalle. «Be’, ci aspettiamo sempre di perdere una certa percentuale di embrioni.»
«Mia moglie non è una certa percentuale,» ringhiò Harvey. Si voltò e scoccò un’occhiata a Boumour che lo costrinse ad arretrare di tre passi.
«Ma queste cose possono sempre succedere,» si difese Boumour. Poi fissò Svengaard, che aveva estratto una siringa a pressione dalla borsa di Igan e la stava preparando. «Cosa sta facendo?»
«Le somministro una leggera dose di enzimi che stimoleranno la produzione degli ormoni di cui abbisogna,» spiegò Svengaard. Diede un’occhiata a Harvey, notando la paura che provava, e la necessità che l’altro aveva di essere rassicurato. «Per il momento, è la cosa migliore che possiamo fare per lei, Durant. Dovrebbe funzionare, se il corpo di sua moglie non ha risentito troppo di questo.» Con un gesto, indicò la loro fuga, la tensione emotiva, la stanchezza.
«Faccia tutto quello che ritiene necessario,» disse Harvey. «So che in ogni caso farà del suo meglio.»
Svengaard praticò l’iniezione, diede un colpetto affettuoso sul braccio di Lizbeth. «Tenti di rilassarsi. Riposi. Non si muova, se può farne a meno.»
Lizbeth annuì. Stava "leggendo" Svengaard, e aveva percepito la sua genuina preoccupazione nei propri confronti. Il suo tentativo di rassicurare Harvey l’aveva commossa, ma era invasa da timori che non riusciva a scacciare.
«Glisson,» sussurrò.
Svengaard intuì i pensieri di Lizbeth, disse, «Non permetterò che nessuno la faccia muovere di qui, prima di essere sicuro che lei si sia ristabilita. Lui e la sua guida dovranno aspettare.»
«Lei non permetterà?» ripeté Boumour in tono ironico.
Come per sottolineare quelle parole, il terreno che li circondava tremò con uno spaventoso brontolio. La polvere penetrò nella stanza dalla stretta entrata e mentre iniziava a ricadere, Glisson si materializzò, come per un qualche trucco da illusionista.
Non appena il terreno aveva iniziato a tremare, Harvey si era buttato al suolo con Lizbeth, coprendola col suo corpo.
Svengaard era ancora chino accanto alla borsa di Igan.
Boumour si era voltato di scatto a fissare Glisson. «Raggi sonici?» sibilò Boumour.
«No,» rispose Glisson. La voce solitamente fredda del Cyborg aveva assunto un tono cantilenante.
«Glisson non ha più le braccia,» fece notare Harvey.
Allora se ne accorsero tutti: dalle spalle del Cyborg, invece delle braccia, pendevano cavi sconnessi, che erano serviti a controllare gli arti di Glisson.
«Sono stati loro a intrappolarci qui dentro,» annunciò il Cyborg, ancora una volta con tono cantilenante, come se qualcosa si fosse rotto all’interno del suo corpo. «Come potete vedere, sono privo di braccia. Non è divertente? Ora avete capito perché non abbiamo mai potuto combatterli apertamente? Quando vogliono, possono distruggere qualunque cosa… chiunque.»
«Igan?» bisbigliò Boumour.
«Quelli come lui sono facili da distruggere,» spiegò Glisson. «Ho assistito all’evento. Accettate la mia parola.»
«Ma cosa faremo?» domandò Harvey.
«Fare?» Glisson lo fissò. «Aspetteremo.»
«Ma uno di voi ha affrontato un’intera squadra della Sicurezza, quando Potter è fuggito,» gli ricordò Boumour. «E adesso tutto quel che sa fare è aspettare?»
«Non sono stato programmato per usare la violenza,» lo informò Glisson. «Vedrete.»
«Cosa ci faranno?» sibilò Lizbeth.
«Tutto quel che vorranno,» replicò Glisson.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
«È fatta,» annunciò Calapine.
Guardò Schruille e Nourse attraverso i prismi riflettenti.
Schruille indicò i diagrammi che erano comparsi sulla parete interna del Globo. «Avete osservato l’emozione di Svengaard?»
«Era davvero terrorizzato,» commentò Calapine.
Schruille increspò le labbra, studiò il riflesso dell’altra Optimate. La visita alla Farmacia le aveva permesso di riacquistare la sua sicurezza interiore, ma sedeva sul trono in preda a una strana tristezza. Il caleidoscopico gioco di luci sulle pareti del Globo conferiva alla sua pelle un aspetto malato. Uno strano rossore aveva invaso i suoi lineamenti.
Nourse diede un’occhiata verso l’alto, ai sensori video: erano tutti accesi, brillavano di un rosso smorto. L’intera comunità di Optimati stava osservando la Tuyere.
«Dobbiamo prendere una decisione,» stabilì Nourse.
«Sembri pallido, Nourse,» commentò Calapine. «Hai qualche problema con i tuoi enzimi?»
«Non più di te,» replicò Nourse in tono difensivo. «Si è trattato di un semplice squilibrio. Ma sta già passando.»
«Ora, io dico: portiamoli qui,» annunciò Schruille.
«A quale scopo?» gli chiese Nourse. «Lo schema della loro fuga ci è ben noto. Perché rischiare che fuggano di nuovo?»
«Mi disturba il pensiero che là fuori ci siano individui fertili non registrati, e dunque non sottoposti al nostro controllo,» rispose Schruille.
«Sei sicuro che riusciremmo a catturarli vivi?» chiese Calapine.
«Il Cyborg ha ammesso che, contro di noi, è impotente,» le ricordò Schruille.
«A meno che non si tratti di un trucco,» intervenne Nourse.
«Non credo,» ribatté Calapine. «E una volta che li avremo portati qui, estrarremo le informazioni di cui abbiamo bisogno direttamente dai loro cervelli.»
Nourse si girò a guardarla. Non riusciva a comprendere cosa fosse successo a Calapine: parlava con l’insensibile brutalità di una femmina della Gente; a causa della violenza a cui aveva assistito, si era trasformata in un demone assetato di sangue.
Ma cosa riuscirà a calmarla? si chiese. Poi fu sconvolto da quel suo stesso pensiero.
«E se sono in possesso di mezzi per auto-distruggersi?» domandò Nourse. «Vi ricordo i casi dell’addetta al computer e di alcuni bioingegneri, che con ogni probabilità erano in combutta con questi criminali. Non siamo riusciti a impedire che si auto-distruggessero.»
«Quanto sei volgare, Nourse,» protestò Calapine.
«Volgare? Io?» Nourse scosse il capo. «Voglio semplicemente evitare ulteriori sofferenze. Distruggiamoli subito, poi rifletteremo sull’accaduto.»
«Glisson è un Cyborg completo,» gli ricordò Schruille. «Riesci a immaginare quante informazioni potremmo apprendere dai suoi banchi di memoria?»
«Io ricordo il Cyborg che scortava Potter,» replicò Nourse. «Non corriamo rischi. La sua docilità potrebbe rivelarsi un trucco.»
«Basterà immettere un narcotico a contatto nella loro attuale prigione,» propose Schruille. «Ecco il mio suggerimento.»
«E come fai a essere sicuro che farà effetto anche sui Cyborg?» obiettò Nourse.
«Certo, potrebbero sfuggirci per la seconda volta,» ammise Schruille. «Ma che differenza fa?»
«Finirebbero in un’altra megalopoli,» disse Nourse. «Non è così?»
«Sappiamo che l’infezione è molto estesa,» spiegò Schruille. «Sicuramente esistevano cellule di congiurati anche qui, nella Centrale. Le abbiamo eliminate, ma le…»
«Io dico di fermarli subito!» esclamò con foga Nourse.
«Sono d’accordo con Schruille,» intervenne Calapine. «Quali rischi correremmo?»
«Prima li fermeremo, prima potremo ritornare alle cose di cui dobbiamo occuparci,» insisté Nourse.
«Ma questa è proprio una di quelle cose,» gli ricordò Schruille.
«Ti stuzzica l’idea di sterilizzare un’altra megalopoli, eh, Schruille?» commentò con amara ironia Nourse. «Quale sarà, questa volta? Che ne dici di Loovil?»
«Una è stata sufficiente,» replicò Schruille. «E poi, in una faccenda del genere, non c’entra nulla ciò che piace o non piace fare.»
«Allora mettiamo la questione ai voti,» decise Calapine.
«Tanto siete due contro uno, vero?» commentò Nourse.