«Prestate particolare attenzione al Cyborg Glisson,» dichiarò Schruille. «Non è strano che i nostri strumenti non rilevino in lui alcuna emozione?»
«Forse non ne ha,» osservò Calapine.
«Ah!» esclamò Schruille. «Un’ipotesi assai brillante.»
«Non mi fido di lui,» disse Nourse. «Un mio antenato mi ha raccontato dei trucchi usati dai Cyborg.»
«È sostanzialmente un robot, programmato per reagire nel modo più efficace per proteggere la propria esistenza. La sua attuale docilità è interessante.»
«Il nostro scopo non era quello di interrogarli?» chiese Nourse.
«Tra un istante,» disse Schruille, «metteremo a nudo i loro cervelli, ne estrarremo i ricordi per esaminarli. Ma prima, è meglio studiarli.»
«Sei così volgare, Schruille,» disse Calapine.
Un mormorio d’approvazione si diffuse nella sala.
Schruille lanciò un’occhiata a Calapine. La voce della donna aveva avuto un tono così strano. Scoprì di esserne stato turbato.
Gli occhi del Cyborg Glisson si mossero, valutando freddamente la scena, luccicando a causa delle lenti speciali che ne espandevano la capacità ottica.
«Se n’è accorto anche lei, Durant?» chiese con voce strozzata a causa del plasmeld che l’imprigionava.
Harvey ritrovò la voce. «Io… non… ci credo.»
«Stanno parlando tra loro,» disse Calapine in tono brillante. Fissò Harvey Durant, intravide nei suoi occhi uno sguardo in cui si mescolavano odio e compassione.
Compassione? si chiese.
Un’occhiata al minuscolo ripetitore da polso le confermò che i dati degli strumenti del Globo erano esatti. Compassione. Compassione! Come osa!
«Har… vey,» bisbigliò Lizbeth.
Una rabbia impotente distorse il viso di Harvey. Mosse gli occhi, ma non tanto da riuscire a vederla. «Liz,» sussurrò. «Liz, io ti amo.»
«Questo è il momento dell’odio, non dell’amore,» lo avvertì Glisson, con un tono distaccato che conferiva alle sue parole un’aura di irrealtà. «Dell’odio e della vendetta,» concluse Glisson.
«Cosa state dicendo?» chiese Svengaard. Era rimasto ad ascoltare le loro parole con crescente sbalordimento. Per un po’, aveva pensato di ricordare umilmente agli Optimati che lui era stato catturato, trattenuto contro il suo volere, ma un sesto senso gli disse che sarebbe stato inutile. Per quegli esseri superbi, lui non era nulla: la schiuma di un’onda che si frangeva contro un’alta roccia. E loro erano la roccia.
«Li guardi con l’occhio del medico,» lo esortò Glisson. «Stanno morendo.»
«È vero,» ammise Harvey.
Lizbeth aveva chiuso gli occhi per impedire alle lacrime di sgorgare. Ora li spalancò e fissò le persone intorno a lei, le vide attraverso gli occhi di Harvey e Glisson.
«Stanno davvero morendo,» alitò con un filo di voce.
Gli occhi addestrati di un Corriere non potevano sbagliarsi: la mortalità sul volto degli immortali! Ovviamente Glisson se n’era accorto grazie alla sua tipica capacità da ciberneuta di correlare e produrre ipotesi.
«Qualche volta la Gente sa essere così disgustosa,» si stupì Calapine.
«Non può essere,» obiettò Svengaard con un tono di voce indecifrabile che stupì Lizbeth; la voce era priva di quella disperazione che lei si sarebbe aspettata.
«Ho detto che sono disgustosi!» sbottò Calapine. «Nessuno stupido farmacista dovrebbe avere l’ardire di contraddirmi.»
Boumour riemerse dal suo stato di apatia. Il computer all’interno del suo corpo, la cui logica era ancora aliena per Boumour, aveva registrato e analizzato la conversazione, ricavandone conclusioni significative. Sollevò lo sguardo, e sebbene fosse ancora incompleto come Cyborg, rilevò dalla carne degli Optimati i segni quasi impercettibili che la sua ipotesi era esatta. Era vero! C’era qualcosa che non andava negli immortali. La sorpresa colmò l’animo di Boumour di una vaga sensazione di perdita, come se avesse dovuto manifestare una qualche emozione che non era più in grado di provare.
«Le loro parole,» disse Nourse. «Per me, sono quasi del tutto privo di significato. Cosa stanno dicendo, Schruille?»
«Adesso interroghiamoli sui Fertili,» li esortò Calapine. «E sull’embrione che hanno sostituito a quello dei Durant. È importantissimo.»
«Guardate là, nella fila più in alto,» disse Glisson. «Quell’Optimate alto. Vedete le rughe sul suo viso?»
«Sembra così vecchio,» sussurrò Lizbeth. Stranamente, si sentiva svuotata. Fino a quando fossero esistiti gli Optimati — immutabili, eterni — anche il suo mondo avrebbe poggiato su di un pilastro altrettanto saldo. Anche se si era opposta al loro dominio, Lizbeth aveva sempre avuto quella sensazione. I Cyborg morivano… alla fine. La Gente moriva. Ma gli Optimati continuavano a vivere… per sempre.
«Come è possibile? Che cosa sta succedendo agli Optimati?» chiese Svengaard.
«La seconda fila sulla sinistra,» disse Glisson. «La donna dai capelli rossi. Vedete le occhiaie, lo sguardo vacuo?»
Boumour mosse gli occhi per vederla. Questo gli bastò per constatare la verità delle parole di Glisson.
«Cosa stanno dicendo?» domandò Calapine. «Cos’è questo?» Parlò in tono querulo, perfino alle proprie orecchie. Si sentiva inquieta, afflitta da dolori di cui non avrebbe saputo spiegare la causa.
Un brusio di scontento si alzò dai banchi della sala. Inframmezzate a esso, si poterono udire risatine, esclamazioni di rabbia, risate sguaiate.
Dovevamo interrogare questi criminali, pensò Calapine. Quando cominceremo? Devo essere io a iniziare?
Fissò Schruille, che si era afflosciato sullo scranno e rivolgeva uno sguardo carico d’odio su Harvey Durant. Poi si voltò verso Nourse, notò il suo sorrisetto di superiorità, l’espressione remota dei suoi occhi. Una vena pulsava nel collo di Nourse — non l’aveva mai notata prima; su una guancia spiccava un groviglio di venuzze vermiglie.
Lasciano che sia io a occuparmi della faccenda, pensò poi.
Con uno scatto nervoso delle spalle, toccò il ripetitore da polso. Una luce purpurea invase il globo che era stato spostato ad un lato della sala. Un raggio di luce scaturì dalla sommità della sfera e lambì il pavimento. Si allungò verso i prigionieri.
Schruille osservò la scena. Presto i cinque criminali si sarebbero trasformati in folli creature urlanti, e avrebbero confessato tutto ciò che sapevano agli analizzatori della Tuyere. La loro personalità sarebbe svanita, ridotta a una fascio di fibre nervose, da cui la luce ardente avrebbe assorbito ricordi, esperienze, conoscenze.
«Aspetta!» esclamò Nourse.
Studiò la luce. L’esclamazione aveva interrotto l’avvicinamento del raggio ai prigionieri. Sentiva che stavano commettendo un grosso errore di cui si era accorto soltanto lui, e si guardò intorno nella sala improvvisamente silenziosa, chiedendosi se qualcun altro avrebbe potuto dare un nome a quell’errore. In quel luogo si trovavano le tecnologie segrete su cui si basava il loro dominio, tutto era ordinato, programmato. Ma, in qualche modo, la casualità della Vita si era introdotta nella Sala. Era un errore.
«Perché stiamo aspettando?» chiese Calapine.
Nourse tentò di ricordarlo. Sapeva di essersi opposto all’interrogatorio. Perché?
La sofferenza!
«Non dobbiamo causare sofferenze,» affermò allora. «Dobbiamo dar loro la possibilità di confessare senza esservi costretti.»
«Sono impazziti,» sussurrò Lizbeth.
«E noi abbiamo vinto,» affermò Glisson. «Attraverso i miei occhi, tutti i Cyborg possono assistere alla nostra vittoria.»
«Ci distruggeranno,» gli ricordò Boumour.