È lo choc, pensò Svengaard. Si tolse la giacca, la drappeggiò intorno al corpo di Nourse, iniziò a frizionargli le braccia per riattivare la circolazione.
Calapine apparve alla sua destra, si sedette accanto alla testa di Nourse. Aveva le mani strette a pugno, su cui spiccavano bianchissime le nocche. I lineamenti del volto era incredibilmente nitidi, gli occhi fissavano lontano. A Calapine sembrava di aver percorso una lunga strada, da quando si era rialzata dal pavimento della sala, spinta da ricordi che non poteva cancellare. Sapeva che aveva superato la follia, era conscia di aver raggiunto una sanità mentale stranamente distaccata.
Il rosso Globo di Controllo attirò il suo sguardo: la fonte di un enorme potere, che ancora adesso l’attraeva. Poi pensò a Nourse, tante volte divenuto suo compagno di letto. Compagno e giocattolo.
«Morirà?» chiese e si voltò a fissare Svengaard.
«Non subito,» rispose il medico. «Ma quell’ultimo attacco isterico… ha causato danni irreparabili al suo corpo.»
Svengaard si rese conto che adesso nella sala risuonavano soltanto gemiti sommessi e qualche ordine impartito con voce calma. Erano intervenuti alcuni degli accoliti.
«Ho liberato Boumour e i Durant e ho richiesto altri… medici,» lo informò Calapine. «Ci sono stati dei… morti. Molti sono feriti.»
Morti, pensò poi. Che strano parola, se la si usa per gli Optimati. Morti… morti… morti…
Sapeva che la necessità del momento l’aveva forzata a raggiungere un nuovo stato stato di coscienza. Era accaduto laggiù, sul pavimento, in un diluvio di ricordi frutto di quarantamila anni di esistenza. Nessuno di essi le era sfuggito: né un momento di gentilezza, né un momento di crudeltà. Ricordava tutti i Max Allgood, Seatac… ogni amante, ogni giocattolo… Nourse.
Svengaard udì un suono di passi, si guardò intorno. Boumour lo raggiunse, reggendo tra le braccia una donna priva di sensi. Un lungo livido bluastro le attraversava una guancia e la mascella. Le braccia pendevano dal corpo come bastoncini spezzati.
«Il Dispensatorio funziona ancora?» chiese Boumour. La sua voce era gelida come quella di tutti i Cyborg, ma i suoi occhi avevano uno sguardo sconvolto, spaventato.
«Dovrà ricorrere ai controlli manuali,» lo avvertì Svengaard. «Ho disinserito quelli automatici.»
Boumour gli girò attorno con passo pesante, sempre reggendo la donna, che aveva un aspetto così fragile. Sul collo le pulsava una grossa vena.
«Devo somministarle qualcosa che rilassi i suoi muscoli, fino a che non potremo portarla in ospedale,» spiegò Boumour. «Si è fratturata entrambe le braccia… tensione contromuscolare.»
Calapine riconobbe il volto della donna, ricordò che un tempo avevano avuto una discussione senza importanza su un uomo, un compagno di letto.
Svengaard si spostò e continuò a massaggiare il braccio destro di Nourse. Quello spostamento gli permise di dare un’occhiata alla piattaforma. Impassibile, Glisson sedeva nel suo involucro. Lizbeth giaceva sul pavimento della sala, con il marito inginocchiato accanto.
«Mrs. Durant!» esclamò Svengaard, ricordando l’impegno che si era assunto.
«Sta bene,» lo rassicurò Boumour. «Rimanere immobile è stata la cosa migliore che potesse capitarle.»
La cosa migliore! pensò Svengaard. Durant aveva ragione: questi Cyborg sono insensibili come macchine.
«Fatelo ta-cere,» mormorò Nourse.
Svengaard lo guardò, notò il pallore del viso, le venuzze scoppiate sulle guance, la carne flaccida. Le palpebre di Nourse si sollevarono con uno sforzo enorme.
«Lo lasci a me,» disse Calapine.
Nourse mosse la testa, tentò di guardarla. Sbatté le palpebre: ovviamente aveva qualche problema a mettere a fuoco lo sguardo. Gli occhi iniziarono a lacrimargli.
Calapine gli sollevò la testa, la poggiò sul proprio grembo. Cominciò a carezzargli la fronte.
«Gli piaceva,» spiegò. «Vada ad aiutare gli altri, Dottore.»
«Cal,» gemé Nourse. «Oh, Cal… io… soffro.»
CAPITOLO VENTESIMO
«Ma perché li sta aiutando?» chiese Glisson. «Non la capisco, Boumour. Le sue azioni sono illogiche. A cosa serve aiutarli?»
Sollevò lo sguardo sul segmento aperto del Globo, al cui interno Calapine sedeva sulla piattaforma dei troni della Tuyere, da sola. Le luci emesse dagli strumenti giocavano lente sul suo viso. Un ologramma danzava nell’aria di fronte a lei.
Glisson era stato liberato dalla sua prigione di plasmeld, ma sedeva ancora sulla piattaforma, con i cavi che penzolavano dalle cavità vuote delle braccia. Lizbeth era sdraiata su di una gravi-barella e Harvey le era inginocchiato accanto. Boumour voltava le spalle a Glisson, e guardava all’interno del Globo. Muoveva meccanicamente le dita, flettendole, aprendole. Aveva la parte destra della camicia macchiata di sangue. Il volto dai lineamenti sottili come quello di un elfo aveva un’espressione perplessa.
Svengaard spuntò da dietro il globo, una figura che si muoveva lentamente nella penombra rossastra. Di colpo, la sala si illuminò tutta. I grandi fotoglobi si erano attivati automaticamente non appena, all’esterno, era calato il buio. Svengaard si fermò a controllare le condizioni di Lizbeth, diede una pacca sulla spalla di Harvey. «Non si preoccupi. Sua moglie si riprenderà perfettamente; è una donna forte.»
Gli occhi di Lizbeth lo seguirono mentre si avvicinava al Globo di Controllo e vi guardava all’interno. Le spalle di Svengaard erano curvate per la fatica, ma il suo sguardo era stranamente vivo, quasi raggiante. Svengaard era un uomo che aveva trovato se stesso.
«Calapine,» annunciò il medico, «l’ultimo dei feriti è stato inviato in ospedale.»
«Capisco,» rispose l’Optimate. Guardò i sensori video, tutti attivati. Più della metà degli Optimati erano stati internati, ormai impazziti. Migliaia erano morti. Altre migliaia erano gravemente feriti. I sopravvissuti osservavano il globo. Calapine sospirò, chiedendosi cosa stessero pensando i suoi pari, come affrontassero il fatto di aver perso il fragile dono dell’immortalità. Ma lei stessa provava emozioni che la confondevano. Nel suo petto, provava addirittura uno strano senso di sollievo.
«Schruille?» chiese a Svengaard.
«Schiacciato dalla folla che tentava di uscire,» rispose l’altro. «Lui è… morto.»
Calapine sospirò. «E Nourse?»
«Sta rispondendo alla cure.»
«Non ha ancora compreso cosa vi è accaduto?» le chiese Glisson. I suoi occhi scintillarono quando guardò Calapine.
Calapine lo fissò, parlò scandendo bene le parole, «Abbiamo subito un trauma emotivo che ha alterato il delicato equilibrio ormonale del nostro organismo,» rispose. «E siete stati voi, con un trucco, a provocarlo. Questo è chiaro… e non si può tornare indietro.»
«Allora sa tutto,» dichiarò Glisson. «Ogni tentativo di ritornare al vostro vecchio stato avrebbe come risultato quello di farvi precipitare nella noia e in un’apatia sempre più pronunciata.»
Calapine sorrise. «Sì, Glisson. E noi non lo vogliamo. Ora siamo affascinati da un nuovo tipo di… vitalità, che neppure sospettavamo esistesse.»
«Lei ha davvero compreso,» affermò Glisson con tono lievemente irritato.
«Avevamo spezzato il ritmo della vita,» disse Calapine. «Tutta la vita è dominata dal ritmo, ma noi ci siamo fermati. Immagino che questa fosse la causa di quell’interferenza esterna: il ritmo della vita che si imponeva di nuovo.»
«Bene,» disse Glisson, «prima cederete il comando a noi, prima le cose si aggiusteranno…»
«Il comando a voi?» chiese Calapine con voce piena di disprezzo. Guardò fuori, verso la sala illuminata, dominata da un netto contrasto tra luci e ombre. La separazione era così netta: tutto si riduceva ad un’opposizione bianco/nero. «Preferirei far morire tutti noi.»