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«Un’esca?»

«Sì, Schruille; servirà a prendere in trappola chiunque altro sia coinvolto.»

«Bene, ma cosa gli è stato fatto?»

«Importa poco, Schruille, fintantoché… avremo il suo completo controllo.»

«Spero che l’embrione sia scrupolosamente sorvegliato,» disse Nourse.

«Assolutamente, Nourse,» lo tranquillizzò Allgood.

«Manda da noi il farmacista Svengaard,» ordinò Calapine.

«Svengaard… Calapine?» disse Allgood.

«Tu non hai bisogno di chiederti il perché,» replicò lei. «Mandalo e basta.»

«Sì, Calapine.»

L’Optimate si alzò, segno che il colloquio era terminato. Gli accoliti si girarono, sempre agitando i loro turiboli, e si prepararono ad accompagnare i semplici fuori della sala. Ma Calapine non aveva ancora finito. Fissò Allgood, poi disse, «Guardami, Max.»

Lui la guardò, riconoscendo quello strano sguardo indagatore negli occhi dell’Optimate.

«Non sono bella?» chiese Calapine.

Allgood fissò la snella figura addolcita dal vestito e dagli schermi d’energia all’interno del globo. Era bellissima, come molte delle Optimate. Ma quella bellezza gli ripugnava a causa della sua minacciosa perfezione. Lei avrebbe vissuto per sempre, del resto aveva già vissuto quarantamila o cinquantamila anni. Ma, un giorno, il corpo di Allgood avrebbe rifiutato gli enzimi e i ritrovati medici. Sarebbe morto mentre Calapine avrebbe continuato a vivere… a vivere.

La sua carne inferiore rifiutava Calapine.

«Sei bellissima, Calapine,» disse Allgood.

«Ma i tuoi occhi non l’ammetteranno mai,» ribatté lei.

«Cosa desideri, Cal?» chiese Nourse. «Vuoi questo… vuoi Max?»

«Voglio i suoi occhi,» replicò Calapine. «Soltanto i suoi occhi.»

Nourse guardò Allgood. «Le donne.» La sua voce aveva un falso tono di cameratismo.

Allgood rimase sbalordito. Non aveva mai sentito un Optimate usare un tono del genere.

«Ho rivolto una domanda molto chiara a Max,» disse Calapine. «Non interrompere le mie parole con queste battute tipicamente maschili. Nel profondo del tuo cuore, Max, quali sentimenti provi verso di me?»

«Ahhh,» commentò Nourse. Annuì.

«Lo dirò io per te,» si offrì Calapine quando Allgood rimase muto. «Tu mi adori. Non dimenticarlo mai, Max. Tu mi adori.» Guardò Boumour e Igan, poi li congedò con un gesto della mano.

Allgood abbassò gli occhi. Sapeva che Calapine aveva ragione. Si girò, e con gli accoliti che li scortavano, condusse Boumour e Igan fuori della sala.

Quando furono sulla scalinata, gli accoliti rimasero indietro, mentre la Barriera si abbassava. Igan e Boumour si girarono verso sinistra, poiché avevano notato un nuovo edificio, in fondo alla lunga spianata di fronte al palazzo dell’Amministrazione. Ne osservarono i muri, le aperture coperte da filtri colorati che proiettavano nell’aria lampi rossi, azzurri e verdi, e si resero conto che quell’edificio bloccava la strada che avevano avuto intenzione di percorrere per lasciare la Centrale. Era stato eretto in pochissimo tempo, rappresentava il nuovo giocattolo di un Optimate. Lo videro, e cambiarono il loro percorso con quella rassegnazione automatica che contraddistingueva i frequentatori abituali della Centrale. I semplici e gli abitanti della Centrale sapevano trovare la strada attraverso l’intrico delle sue strade quasi per istinto. Quel luogo sfidava ogni tentativo dei cartografi di tracciarne una mappa, poiché era soggetto ai continui capricci degli Optimati.

«Igan!»

Era Allgood che li stava chiamando.

Si girarono, attesero che li raggiungesse.

Allgood si fermò di fronte a loro, con le mani sui fianchi. «Anche voi l’adorate?»

«Non dica sciocchezze,» lo rimbeccò Boumour.

«No,» disse Allgood. Aveva gli occhi infossati. «Non pratico alcun culto diffuso tra la Gente, non appartengo a nessuna congregazione di Fertili. Come potrei mai adorarla?»

«Ma è così,» disse Igan.

«Sì!»

«Loro rappresentato l’unica vera religione del nostro mondo,» disse Igan. «Non ha bisogno di far parte di un culto o di possedere un talismano per saperlo. Quel che ha voluto dirle Calapine è che, se esiste davvero una cospirazione, ebbene i suoi membri sono puri e semplici eretici.»

«Era questo che voleva dire?»

«Sicuramente.»

«E Calapine sa bene quale trattamento si è soliti infliggere agli eretici,» rifletté Allgood.

«Senza alcun dubbio,» commentò Boumour.

CAPITOLO SESTO

Svengaard aveva visto quell’edificio alla olo-tv e nei documentati educativi. Aveva udito le descrizioni della Sala del Consiglio, ma trovarsi là di persona, davanti alla Barriera della Quarantena, con il sole che irradiava una luminosità bronzea sulle colline… era qualcosa che non aveva mai sognato che potesse accadere.

Sulla collinetta di fronte a lui, gli ingressi degli ascensori erano simili a verruche. Alle spalle di essa, c’erano altre basse colline, su cui sorgevano edifici che era facile scambiare per spuntoni di roccia.

Sulla spianata, incrociò una donna che spingeva un carrello a levitazione magnetica pieno di fagotti dalla forma strana. Svengaard si chiese quale potesse essere il contenuto di quei fagotti, ma sapeva che non aveva il coraggio di domandarlo alla donna, o perfino di mostrare un’indiscreta curiosità.

Il triangolo rosso di un Dispensatorio Farmaceutico brillò su un pilastro accanto a lui. Lo superò, poi si voltò a guardare la sua scorta.

Per giungere lì, aveva attraversato mezzo continente in sotterranea, con una carrozza a esclusiva disposizione sua e della guardia, un agente della Sicurezza. Ora si trovavano vicini al cuore della Centrale, e la guardia non l’aveva mai perso di vista, neppure per un istante.

Svengaard iniziò a salire i gradini.

L’atmosfera di quel luogo stava iniziando a pesare sul suo animo: sembrava pregna di malaugurio. E anche se sospettava cosa causasse quella sensazione, Svengaard sapeva che non sarebbe riuscito facilmente a liberarsene. Decise che era impossibile dimenticarsi di tutte le superstizioni che nutriva la Gente. I membri della Gente, nella maggior parte dei casi, non possedevano alcun corpus di miti o leggende, tranne quelli che riguardavano gli Optimati. Nella memoria storica della Gente, gli Optimati e la Centrale erano immersi in un aura frutto di sinistro timore e adorazione.

Perché mi hanno convocato? si chiese Svengaard. La guardia si era rifiutata di rivelarglielo.

Giunti alla barriera, furono fermati e attesero in un silenzio nervoso.

Svengaard si accorse che anche l’agente della Sicurezza era in preda al nervosismo.

Perché mi hanno convocato?

L’agente si schiarì la gola, disse, «Ha memorizzato alla perfezione il protocollo da seguire?»

«Penso di sì,» rispose Svengaard.

«Una volta introdotto nella Sala, segua gli accoliti che la scorteranno. Sarà interrogato dalla Tuyere: Nourse, Schruille e Calapine. Ricordi di usare i loro nomi, quando si rivolge a uno di loro. Eviti di usare parole quali "morte", "uccidere" o "morire". Se può, eviti perfino i concetti che esse esprimono. Lasci che siano loro a condurre la conversazione. È meglio che non dica nulla, se non è espressamente interrogato.»

Svengaard fece un respiro tremulo.

Mi hanno chiamato qui per darmi una promozione? si chiese. Deve trattarsi proprio di questo. Dopo tutto, ho compiuto il mio apprendistato sotto uomini quali Potter e Igan. Forse mi promuoveranno alla Centrale.

«E non usi la parola "dottore",» lo avvertì l’agente. «Qui i dottori vengono chiamati farmacisti o ingegneri genetici.»

«Ho capito,» gli assicurò Svengaard.

«Allgood vorrà un rapporto completo sul colloquio,» lo informò l’agente.