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«E come avrei potuto non farlo?» gli replicò lei.

La Centrale, pensò Lizbeth. Quel luogo evocava nella sua mente gli onnipotenti Optimati, ma anche i Cyborg che in segreto si opponevano ad essi; la cosa la riempì di profondo disagio. In quel momento non poteva permettersi di pensare a nulla che non fosse suo figlio.

«Sappiamo che Potter è il migliore nel suo campo,» disse Lizbeth, «e non vogliamo che lei pensi che ci siamo lasciati prendere da sciocche paure irrazionali…»

«…ma vogliamo assistere,» concluse Harvey. Poi pensò, Questo medico altezzoso farà meglio a rendersi conto che conosciamo bene i nostri diritti.

«Capisco,» commentò il Dr. Svengaard. Al diavolo questi due imbecilli! imprecò in mente sua. Ma poi, continuando ad usare un tono di voce neutro e rassicurante, disse, «La loro preoccupazione è degna di nota. Ammiro i loro sentimenti. Tuttavia, le conseguenze…»

Lasciò la frase in sospeso, ricordando loro che anche lui godeva di alcuni diritti legali: era autorizzato ad effettuare l’intervento con o senza il loro consenso e non poteva essere ritenuto responsabile di traumi emotivi subiti dai genitori. La Legge Pubblica 10927 parlava chiaro. I genitori potevano invocarla per ottenere il diritto di assistere, ma il chirurgo avrebbe comunque eseguito l’intervento a sua completa discrezione. Il futuro della razza umana era stato rigidamente pianificato, il che escludeva l’eventuale nascita di mostri o devianti genetici.

Harvey annuì rapidamente e con enfasi. Strinse forte la mano della moglie. La sua mente fu inondata da frammenti di terribili storie sussurrate dalla Gente e di miti ufficiali. Vedeva Svengaard in parte alla luce di quelle storie, in parte attraverso la letteratura proibita distribuita di nascosto, e di malavoglia, dai Cyborg all’Associazione Clandestina dei Genitori — attraverso le opere di Stedman e Merck, Shakespeare e Huxley. Le sue conoscenze del passato erano tanto limitate che si rendeva conto di essere incapace di liberarsi completamente dalla superstizione.

Anche Lizbeth annuì, ma più lentamente. Sapeva fin troppo bene qual era il loro scopo principale, ma quello nella vasca rimaneva pur sempre suo figlio.

«È sicuro,» chiese, lanciando di proposito un’esca a Svengaard, «che non soffrirà?»

Quella domanda assurda, scaturita dalla necessaria ignoranza in cui veniva mantenuta la Gente, fece infuriare il Dottor Svengaard. Sapeva di dover troncare il più presto possibile quella conversazione. Ciò che avrebbe potuto dire continuava ad interferire con ciò che doveva dir loro.

«L’ovulo fertilizzato non possiede terminazioni nervose,» replicò seccamente. «Ha meno di tre ore di vita, e la sua crescita viene ritardata mediante inalazione controllata di nitrato. Nel suo caso, parlare di sofferenza è semplicemente assurdo.»

Sapeva che per quei due i termini tecnici non avevano alcun significato, tranne quello di sottolineare ancor più l’enorme distanza che correva tra dei semplici genitori e un bioingegnere submolecolare.

«Immagino di aver detto una vera sciocchezza,» si schermì Lizbeth. «L’ov… è così semplice, non è ancora un essere umano.» Ma con le dita segnalò a Harvey, «Che sciocco è costui! Con lui, è come leggere i pensieri di un bambino.»

La pioggia ballò una tarantella sul lucernario. Svengaard attese che finisse, poi ribatté: «Ah, ora cerchiamo di non travisare.» Pensò che non poteva esserci momento più adatto per dare una rinfrescata alla loro scarsissime nozioni sull’argomento. «Il vostro embrione può anche avere meno di tre ore di vita, ma contiene già ogni enzima base di cui avrà bisogno non appena si sarà sviluppato appieno. In effetti si tratta di un organismo enormemente complicato.»

Harvey lo fissò con una finta espressione di soggezione di fronte alla mente eccelsa di un uomo che riusciva a comprendere misteri quali la formazione e il modellamento della vita.

Lizbeth lanciò una rapida occhiata alla vasca.

Due giorni prima, alcuni gameti selezionati, suoi e di Harvey, immersi in una stasi artificiale, erano stati uniti, e lasciati liberi di dar via ad una mitosi limitata. Quest’ultimo processo aveva creato un embrione fertile — cosa rara in un mondo in cui soltanto pochi, accuratamente selezionati, non erano sottoposti al gas contraccettivo, dunque liberi di procreare, e tra quest’ultimi ancor meno individui producevano embrioni fertili. Non era ritenuto necessario che Lizbeth comprendesse il processo nei suoi minimi particolari, e lei aveva sempre dovuto nascondere il fatto che fosse pienamente in grado di farlo. Essi — gli Optimati della Centrale — eliminavano spietatamente qualsiasi minaccia, per quanto piccola, alla loro supremazia. E per loro, la minaccia peggiore era che la conoscenza cadesse nelle mani sbagliate.

«Adesso… quant’è… grande?» chiese Lizbeth.

«Ha un diametro di un decimo di millimetro,» rispose Svengaard. Concesse ai suoi lineamenti di rilassarsi in un sorriso. «È una morula e, in epoca primitiva, non avrebbe ancora compiuto il tragitto verso l’utero. Questo è il momento in cui è più sensibile al trattamento. Dobbiamo operare su di esso adesso, prima della formazione del trofoblasto.»

I Durant annuirono, pieni di soggezione.

Il Dottor Svengaard si crogiolò nel loro rispetto. Sapeva che le loro menti annaspavano, alle prese con definizioni che ricordavano a malapena, frutto della limitata istruzione che era stato permesso loro di conseguire. Le schede con i loro dati rivelavano che la donna era la bibliotecaria di un asilo, mentre l’uomo era un istruttore di giovani — nessuno dei due aveva avuto bisogno di un’istruzione particolarmente approfondita.

Harvey toccò la vasca, ritrasse di scatto la mano. Il cristallo della vasca era caldo, percorso da leggere vibrazioni. E c’era il continuo thrap-thrap-thrap della pompa. Si rese conto che quel rumore fastidioso era provocato di proposito, lesse e interpretò, come gli era stato insegnato dall’Associazione, il comportamento di Svengaard, intuendo quanto fosse duplice, sotto l’apparente cortesia. Diede un’occhiata al laboratorio — tubi di vetro, armadietti grigi, angoli e curve di scintillante plasmeld, onnipresenti quadranti di apparecchiature, simili a occhi di creature che lo guatassero. Quel luogo odorava di disinfettante, e di altre sostanze chimiche più esoteriche. Nel laboratorio, tutto aveva un duplice scopo: essere perfettamente funzionale e instillare timore nei non iniziati.

Lizbeth si concentrò sull’unico oggetto di uso comune, di cui conosceva la funzione: un lavabo in porcellana smaltata dai rubinetti splendenti. Il lavabo era incastrato tra due misteriose costruzioni formate da spirali di vetro e blocchi di plasmeld grigio opaco.

Il lavabo turbò Lizbeth. Serviva a disfarsi della spazzatura. I rifiuti venivano macinati, prima di essere inviati nel sistema di recupero. Qualsiasi cosa, purché piccola, poteva essere gettata in un lavabo, per poi perdersi.

Per sempre.

Qualsiasi cosa.

«Non riuscirà a convincermi a non assistere,» dichiarò Lizbeth.

Dannazione! imprecò mentalmente Svengaard. C’era un tremito nella sua voce. Quella brevissima esitazione, quel tremito l’avevano tradita, contrastavano con l’atteggiamento risoluto della donna. Durante l’intervento di ingegneria genetica che l’aveva plasmata, il chirurgo aveva enfatizzato troppo il suo istinto materno… e non importava che, sotto ogni altro aspetto, avesse operato brillantemente.

«Ci preoccupiamo di voi quanto del bambino,» replicò lui. «Il trauma…»

«La legge ce ne dà il diritto,» intervenne Harvey. Poi segnalò a Lizbeth, «Finora la faccenda sta andando più o meno come avevamo previsto.»