«Tu osi rivolgerci delle domande?» trasecolò Nourse.
«Benissimo, allora risponderò io al vostro posto,» disse Glisson. «Avete rinunciato alla clonazione perché è un processo gravido di rischi. I cloni sono instabili, votati all’estinzione.»
Calapine udì soltanto delle parole sconnesse, «Sterili… morire… instabili… estinzione…» Quelle parole terribili si insinuarono nella sua coscienza, occupata a osservare una sfilata di grosse salsicce luminescenti. Erano come semi avvolti da un’aura luminosa che si muovessero contro uno sfondo di velluto di un nero oleoso. Salsicce. Semi. Ma poi li vide non proprio come semi, ma piuttosto come vite incapsulate — avvolte in un bozzolo, protette per affrontare un periodo non favorevole al loro sbocciare. Quel pensiero le rese i semi meno disgustosi. Dopo tutto, erano vita… sempre vita.
«Non abbiamo bisogno del genoma,» dichiarò Schruille.
Calapine udì distintamente quell’affermazione, sentì di essere in grado di leggere i pensieri di Schruille. Le parole di una delle salsicce si impressero sulla sua coscienza: Qui, nella Centrale, siamo milioni. Siamo in numero più che sufficiente. La Gente, la cui vita è breve e futile, è solo un disgustoso relitto del nostro passato. Sono i nostri animali domestici, e noi ora non ne abbiamo più bisogno.
«Ho deciso cosa ne faremo di questi criminali,» disse Nourse. Parlò a voce alta, per farsi udire al di sopra del frastuono sempre più assordante. «Applicheremo loro una stimolazione nervosa, un micron per volta. La loro sofferenza sarà squisita e potrà protrarsi per secoli.»
«Ma avevi detto che non volevi usare la violenza,» gli ricordò Schruille.
«Davvero?» chiese Nourse con voce preoccupata.
Non mi sento bene, pensò Calapine. Ho bisogno di andare in Farmacia. In Farmacia. Quella parola agì da interruttore, riportandola alla piena coscienza. Si accorse di essere sdraiata a terra, di avere il naso dolorante per la caduta, e umido di una qualche sostanza.
«In ogni caso, il tuo suggerimento è notevole,» disse Schruille. «Potremmo ricostruire i loro sistemi nervosi ogni volta, e continuare a punirli per sempre. Un’eterna, squisita sofferenza!»
«Un vero inferno,» gongolò Nourse. «Una punizione appropriata.»
«Sono abbastanza pazzi da farlo sul serio,» gracchiò Svengaard. «Come faremo a impedirglielo?»
«Glisson!» esclamò Lizbeth. «Faccia qualcosa!»
Ma il Cyborg rimase in silenzio.
«Questo non l’aveva previsto, eh, Glisson?» commentò amaramente Svengaard.
Ancora una volta il Cyborg non pronunciò parola.
«Mi risponda!» annaspò Svengaard.
«Il piano era che morissero,» disse Glisson con voce priva di ogni emozione.
«Ma adesso magari sterilizzeranno davvero tutta la Terra, salvo la Centrale, e potranno indulgere nella loro follia in perfetta solitudine,» disse Svengaard. «E noi potremmo essere torturati per sempre!»
«Non per sempre,» lo corresse Glisson. «Stanno morendo.»
Applausi fragorosi scoppiarono verso il fondo della sala. Nessuno dei prigionieri poté girarsi per osservarne la causa, ma quel suono conferì maggiore frenesia a un’atmosfera già caotica.
Calapine si alzò dal pavimento. Il naso e la bocca le pulsavano dolorosamente. Si girò verso la piattaforma, osservò il tumulto alle spalle della macchina. Gli Optimati erano saliti sui banchi per osservare una qualche attività nascosta dalla loro stessa calca. Improvvisamente un corpo nudo fu scagliato al di sopra della folla, roteò nell’aria per poi ricadere con un tonfo orribile. Ancora una volta un applauso fragoroso scosse la sala.
Cosa stanno facendo? si chiese Calapine. Si stanno facendo del male — reciprocamente.
Calapine si passò una mano sulla naso e la bocca, la guardò. Sangue. Ora ne sentiva l’odore allettante. Il proprio sangue. Ne fu affascinata. Si avvicinò ai prigionieri, mostrò la mano a Harvey Durant.
«Sangue,» gli disse. Si toccò il naso. Dolore! «Soffro,» annunciò. «Perché sto soffrendo, Harvey Durant?» Lo fissò negli occhi. Durant la guardava con uno sguardo così addolorato. Lui era un essere umano, provava dei sentimenti.
Harvey continuò a guardarla, i loro occhi quasi allo stesso livello grazie alla piattaforma. Improvvisamente provò per lei una grande pietà. Lei era Lizbeth, Calapine, ogni donna mai vissuta. Si accorse che la donna lo fissava con attenzione spasmodica, in attesa della sua risposta, dimentica di ogni altra cosa.
«Anch’io soffro, Calapine,» disse infine. «E la vostra morte mi farebbe soffrire ancora di più.»
Per un istante, Calapine pensò che il baccano nella sala fosse cessato. Poi comprese che continuava ancora più intenso. Udiva Nourse cantilenare «Bene! Bene!» e Schruille ripetere «Eccellente! Eccellente!» Fu conscia di essere stata l’unica ad aver ascoltato le terribili parole di Durant. Erano parole oscene. Aveva vissuto migliaia di anni tentando di cancellare il concetto stesso di morte individuale. Esso non poteva essere espresso, e neppure pensato. Ma Calapine aveva udito quelle parole. Provò il desiderio di far finta che non fossero mai state pronunciate. Ma un frammento dell’attenzione che aveva concentrato su Durant la costrinse a riflettere sul loro significato. Solo pochi minuti prima, aveva visto come i semi della vita superavano gli eoni. Aveva percepito la presenza di forze, al di fuori di qualsiasi controllo, che potevano agire nel mitocondrio di una cellula.
«La prego,» sussurrò Lizbeth. «Ci liberi. Lei è una donna. Deve provare un po’ di compassione. Cosa abbiamo fatto di male? Desiderare l’amore, la nascita di una nuova vita sono crimini tanto gravi? Non volevamo farvi alcun male.»
Calapine non diede segno di aver udito la supplica. Nella sua mente continuavano a risuonare le parole di Harvey, La vostra morte… la vostra morte… la vostra morte…
Il suo corpo fu assalito da vampate di gelo e di calore. Udì un altro applauso. Si rese conto del malessere che l’aveva assalita, del vicolo cieco in cui era stata intrappolata. Fu invasa dalla rabbia. Si chinò verso i controlli della piattaforma, premette un bottone sotto i piedi di Glisson.
Le lastre da cui era formato l’involucro che imprigionava il Cyborg iniziarono a stringersi. Glisson sbarrò gli occhi ed emise un ansito roco. Calapine ridacchiò, premette un altro bottone. Le lastre ritornarono al loro posto. Questa volta Glisson ansimò di sollievo.
Calapine sfiorò con la mano i controlli dell’involucro di Harvey. «Giustifica subito il tuo imperdonabile comportamento!» ordinò.
Harvey rimase in silenzio, gelato dalla paura. Stava per essere schiacciato come un insetto!
Svengaard iniziò a ridere. Ormai aveva compreso di ricoprire un ruolo di secondo piano in tutta quella faccenda. Non riusciva a immaginare il perché fosse stato scelto per assistere a una scena del genere: Glisson e Boumour apatici e silenziosi, Nourse e Schruille che deliravano sui loro scranni, gli Optimati in preda a una violenza insensata, Calapine pronta a ucciderli tutti, per poi dimenticarsene un istante dopo. La sua risata divenne più forte, più selvaggia.
«Smettila di ridere!» gridò Calapine.
Il corpo di Svengaard tremava, in preda a un attacco di ilarità isterica. Annaspò nel tentativo di riprendere fiato. Poi la voce sferzante di Calapine lo aiutò a riacquistare l’autocontrollo. Ma l’intera situazione rimaneva immensamente comica.
«Pazzo!» lo schernì Calapine. «Dimmi perché stavi ridendo!»
Svengaard la fissò. Ora nei confronti di Calapine provava soltanto della pietà. Ricordò il mare che bagnava Lapush, il luogo in cui andavano a riposarsi i medici, e comprese il motivo per cui gli Optimati avevano edificato la Centrale il più lontano possibile da qualunque oceano. Le onde del mare avrebbero loro ricordato che lottavano contro ben altri flutti: quelli dell’eternità. E gli Optimati erano incapaci di sopportare quel pensiero.