«Rispondimi,» ordinò Calapine. La sua mano era vicinissima ai controlli.
Svengaard si limitò a fissare lei, e la follia che si era impadronita degli Optimati. Ora li comprendeva perfettamente; era come se i loro corpi e le loro menti giacessero aperti davanti al suo sguardo.
Le loro anime hanno una sola cicatrice, pensò Svengaard.
Era stata scavata giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, eone dopo eone — il timore sempre più grande che la benedizione dell’immortalità potesse rivelarsi un’illusione, che dopo tutto la loro esistenza privilegiata potesse finire. Fino a quel momento, Svengaard non aveva mai sospettato quale prezzo pagassero gli Optimati per la loro immortalità. Più vivevano, più essa aumentava di valore. Più aumentava di valore, più temevano di perderla. Era un circolo vizioso… e la pressione continuava ad aumentare… per l’eternità.
Ma, prima o poi, si sarebbe raggiunto il punto di rottura. I Cyborg l’avevano intuito, ma la loro logica fredda e inumana aveva fatto sì che fossero stati incapaci di prevedere le vere conseguenze.
Gli Optimati erano sempre vissuti circondandosi di eufemismi. Chiamavano farmacisti i dottori, poiché il termine "dottore" implicava concetti come "malattia", e questo per gli Optimati era impensabile. Per loro esisteva soltanto la Farmacia Centrale, e i suoi innumerevoli Dispensatorii, uno dei quali era sempre a pochi passi da qualsiasi Optimate. Non si allontanavano mai dalla Centrale e dalle sue sofisticate difese. Perpetui adolescenti, continuavano a vivere in un asilo infantile trasformatosi in prigione.
«E così non vuoi dirmelo,» concluse Calapine.
«Aspetti,» disse Svengaard, mentre Calapine avvicinava la mano ai pulsanti che controllavano la sua prigione di plasmeld. «Quando avrete ucciso tutti gli individui fertili, e sarete rimasti soltanto voi, quando vi vedrete morire, allora cosa succederà?»
«Come osi!» sibilò Calapine. «Tu osi interrogare un Optimate, la cui esperienza di vita riduce la tua a questo!» Schioccò le dita.
Svengaard guardò il naso illividito di Calapine, il sangue.
«Optimate,» recitò. «Uno Steri la cui costituzione accetta la modifica enzimica che dona l’immortalità… finché il suo stesso corpo inizia ad autodistruggersi. Io penso che voi vogliate morire.»
Calapine si raddrizzò, gli scoccò un’occhiata rabbiosa. Mentre lo faceva, si rese conto del bizzarro silenzio che all’improvviso era sceso sull’intera sala. Si guardò intorno, vide che tutti gli Optimati la stavano fissando attentamente. Poi ne comprese la causa. Hanno notato il sangue sul mio volto.
«Eravate immortali,» proseguì Svengaard. «Ma questo vi ha reso più brillanti, più intelligenti? No. Avete semplicemente vissuto più a lungo, avendo a disposizione più tempo per educare voi stessi, per vivere numerose esperienze. Molto probabilmente non è servito a nulla, oppure avreste compreso molto tempo fa che questo momento era inevitabile: l’equilibrio infranto, la morte di voi tutti.»
Calapine arretrò di un passo. Le parole di Svengaard erano coltelli brucianti che le ferivano i nervi.
«Guardi se stessa, i suoi pari!» incalzò Svengaard. «Tutti voi state male. E cosa fa il vostro prezioso sistema medico computerizzato? Io lo so, senza bisogno che me lo dica qualcun altro: sta tentando di bilanciare le oscillazioni; è stato programmato per questo. Lo farà finché glielo permetterete, ma questo non vi salverà.»
Qualcuno gridò alle sue spalle, «Fatelo tacere!»
Il grido si diffuse per la sala, divenne un canto assordante. Gli Optimati iniziarono a battere i piedi, a battere i pugni sui banchi. «Fatelo ta-cere! Fatelo ta-cere! Fatelo ta-cere!»
Calapine si coprì le orecchie con le mani. Ma sentiva ancora quel canto, attraverso la pelle. E si accorse che gli Optimati stavano abbandonando le file di banchi per avvicinarsi minacciosamente ai prigionieri. Sapeva che tra qualche istante sarebbe scoppiata una sanguinosa violenza.
Gli Optimati si fermarono.
Calapine non riuscì a comprenderne il motivo e tolse le mani dalle orecchie. Gli Optimati incominciarono a urlare, a invocare i nomi di dèi semi-dimenticati. Gli occhi di tutti stavano fissando una figura riversa al suolo.
Calapine ruotò su se stessa, vide Nourse che si contorceva sul pavimento della sala, con la bava alla bocca. La sua pelle era chiazzata da macchie porpora e gialle. Le mani artigliavano il pavimento.
«Fate qualcosa!» gridò Svengaard. «Sta morendo!» Non appena ebbe pronunciato quell’invocazione, si stupì di averlo fatto. Fate qualcosa! Ma era stata la coscienza di essere un medico a farlo parlare, nonostante tutto quello che era accaduto.
Calapine arretrò, sollevò le mani in un gesto di scongiuro antico quanto la stregoneria. Schruille balzò in piedi sullo scranno, con la bocca che si muoveva senza emettere alcun suono.
«Calapine,» disse Svengaard, «se lei non vuole aiutarlo, mi liberi e lo farò io.»
Calapine si affrettò a ubbidire, estremamente grata di poter scaricare quella tremenda responsabilità su qualcun altro.
Al suo tocco, la lastre di plasmeld che imprigionavano Svengaard rientrarono nella piattaforma. Svengaard saltò a terra, quasi cadde. Aveva le braccia e le gambe che gli formicolavano. Zoppicò verso Nourse, con gli occhi e la mente in frenetica attività. Colorito giallastro — probabilmente una reazione immunitaria all’acido pantotenico unita ad uno squilibrio nella soppressione dell’adrenalina.
Il triangolo rosso che indicava un Dispensatorio della Farmacia luccicava alla sua sinistra, al di sopra delle file di banchi. Svengaard si chinò, raccolse il corpo di Nourse ancora in preda alle convulsioni, iniziò a salire verso il simbolo. Improvvisamente, Nourse si accasciò tra le sue braccia, immobile tranne il leggero sollevarsi del petto.
Gli Optimati si scostarono da lui come se fosse un appestato. Di colpo, qualcuno urlò, «Fatemi uscire!»
La folla si mise a correre. Migliaia di piedi rimbombarono sul plasmeld del pavimento. Gli Optimati si accalcarono davanti le porte, scavalcandosi l’un l’altro, lottando follemente per essere i primi a uscire. Si udivano urla, imprecazioni, grida rauche. Era come se in un recinto di bestiame fosse stato liberato un predatore.
Una parte della coscienza di Svengaard registrò l’immagine di una donna alla sua destra. La superò. La donna giaceva tra due file di banchi, con la schiena ad un angolo assurdo, con la bocca spalancata, gli occhi che fissavano il sangue che le ricopriva le braccia e il collo. Non respirava più. Svengaard superò anche un uomo che si trascinava in avanti, con una gamba inutilizzabile, gli occhi fissi sull’insegna dell’uscita, attorno a cui si ammassavano centinaia di figure frenetiche.
A Svengaard avevano cominciato a far male le braccia. Incespicò, quasi cadde salendo gli ultimi due gradini. Depose il corpo di Nourse sul pavimento accanto al punto di distribuzione.
Dal basso lo stavano chiamando delle voci: Durant e Boumour che gli urlavano di liberarli.
Più tardi, pensò Svengaard. Premette il palmo della mano contro la serratura del Dispensatorio. Le porte rifiutarono di aprirsi. È ovvio, pensò. Io non sono un Optimate. Sollevò Nourse, premette una delle mani di Nourse sulla serratura digitale. Le porte scivolarono via. Dietro di esse si trovava un apparecchio di somministrazione, apparentemente del solito tipo: pirimidini, aneurina…
Aneurina e inositol, pensò Svengaard. Devo compensare la reazione immunitaria.
Il lato destro dell’apparecchiatura era occupato da una familiare console di controllo, con un foro per infilarvi un braccio e gli aghi collegati ai quadranti di misurazione. Svengaard premette alcuni tasti sulla consolle, aprì il pannello. Individuò gli aghi che somministravano aneurina e inositol, bloccò gli altri, posizionò il braccio di Nourse sotto gli aghi, che trovarono le vene, vi affondarono. Le lancette dei quadranti scattarono improvvisamente verso l’alto.