Qualcuno si passò le mani tra i capelli e intimò: — Spegni quel dannato coso.
Qualcun altro lo riaccese.
George sogghignò e guidò Maisie in un separé sul retro dove aveva visto Pete Mulvaney seduto tutto solo con una bottiglia davanti a sé. George e Maisie gli si sedettero di fronte.
— Ciao, — disse George con voce grave.
— Al diavolo, — ribatté Pete, che era capo della stazione tecnica addetta alle ricerche del MID.
— Una splendida notte, Mulvaney, — riprese George. — Hai visto come la luna cavalcava le nuvole sfilacciate, un galeone dorato sbattuto qua e là sui cavalloni dalle argentee creste in un tempestoso…
— Chiudi il becco, — latrò Pete. — Sto pensando.
— Due whisky doppi, — ordinò George rivolto al cameriere. Poi tornò a girarsi verso l’amico sul lato opposto del tavolo. — Pensa a voce alta, così possiamo sentire anche noi. Ma prima dimmi come sei riuscito a scappare da quella gabbia di matti dall’altra parte della strada…
— Mi hanno mandato a spasso, dimesso, licenziato.
— Stringiamoci la mano. E poi spiegami: gli hai detto dit-dit-dit?
Pete lo fissò con improvvisa ammirazione. — Tu si?
— Ho una testimone. Ma tu, cos’hai fatto?
— Gli ho detto cosa pensavo che fosse… e mi hanno preso per matto.
— Lo sei?
— Sì.
— Bene, — annuì George. — Allora vorremmo sapere… — Fece schioccare le dita. — E la TV?
— Stessa cosa. Lo stesso suono nell’audio e le immagini guizzano e si estinguono ad ogni punto o linea. Ormai è soltanto una macchia confusa.
— Magnifico. E adesso dimmi cosa c’è che non funziona. Non m’importa cosa sia, basta che non sia banale… Ma voglio saperlo.
— Credo sia lo spazio. Lo spazio si è distorto.
— Buon vecchio spazio, — disse George Bailey.
— George, — lo sollecitò Maisie, — per favore, taci. Voglio ascoltare Pete.
— Lo spazio, — proseguì Pete, — è qualcosa di finito. — Si versò un altro bicchiere. — Ti allontani di parecchio in qualunque direzione e ti ritrovi dove sei partito. Come una formica che si arrampica intorno a una mela.
— Facciamo un’arancia, — disse George.
— D’accordo, un’arancia. Supponi adesso che la prima onda radio mai trasmessa dalla Terra abbia compiuto tutto il periplo. In cinquantasei anni.
— Cinquantasei anni? Pensavo che le onde radio viaggiassero alla stessa velocità della luce. Se questo è esatto, allora in cinquantasei anni potevano percorrere soltanto cinquantasei anni-luce, e questo non può costituire il giro completo intorno all’universo poiché ci sono galassie che si trovano, com’è noto, a milioni o forse miliardi di anni-luce di distanza. Non ricordo bene i numeri, Pete, ma la nostra galassia, da sola, supera di parecchio i cinquantasei anni-luce.
Pete Mulvaney sospirò. — È per questo che dico che lo spazio dev’essersi distorto. Da qualche parte dev’essersi aperta una scorciatoia.
— Una scorciatoia così corta? Non può essere.
— Ma George, hai ascoltato quella roba che sta arrivando? Sai leggere il codice?
— Non più. Non così in fretta, ad ogni modo.
— Be’, io so farlo, — disse Pete. — È il gergo dei primi radioamatori americani. È il genere di roba di cui era pieno l’etere prima delle trasmissioni regolari. Sì, è il gergo, le abbreviazioni, le chiacchiere da cortile e da caserma dei radioamatori armati di tasto, d’un rivelatore Marconi o d’un dispositivo Fessenden… e tra poco potrai ascoltare un assolo di violino. E già posso dirti adesso cosa sarà.
— Cosa?
— Il Largo di Haendel. Il primo disco fonografico che sia mai stato trasmesso via radio. Con un Fessenden, da Brant Rock nel 1906. Sentirai questo CQ-CQ da un momento all’altro. Ci scommetto da bere.
— D’accordo. Ma cos’era questo dit-dit all’inizio di tutto?
Mulvaney sogghignò. — Marconi, George. Qual è stato il più potente segnale mai trasmesso, e da chi e quando?
— Quello di Marconi? Dit-dit-dit? Cinquantasei anni fa?
— Sei il primo della classe. Il primo segnale transatlantico, il 12 dicembre 1901. Per tre ore quella grossa stazione di Marconi, a Poldhu, con antenne alte sessanta e più metri, trasmise a intermittenza una S, mentre Marconi e due assistenti a St. Johns in Terranova facevano volare un’antenna a centoventi metri di quota con un aquilone riuscendo alla fine a captare il segnale. Attraverso l’Atlantico, George, con le scintille che sprizzavano dalle grosse bottiglie di Leida a Poldhu e 20.000 volt che sparavano via come calci gli impulsi da quelle tremende antenne…
— Aspetta un attimo Pete, sei sfasato. Se quello è accaduto nel 1901 e la prima trasmissione è stata nel 1906, ci vorranno cinque anni prima che quella roba del Fessenden arrivi fin qui seguendo la stessa strada. Sempre che ci sia davvero quella scorciatoia di cinquantasei anni-luce attraverso lo spazio e sempre che quei segnali non si siano tanto indeboliti durante il viaggio da diventare inaudibili per noi… È pazzesco.
— Te l’avevo già detto che lo era, — replicò Pete, tetro. — Diamine, dopo aver viaggiato tanto quei segnali dovrebbero essere talmente infinitesimi a tutti i fini pratici da non esistere. Inoltre occupano tutte le bande dalle microonde in giù e sono ugualmente intensi su tutte le frequenze. E come tu hai fatto notare, abbiamo superato cinque anni in due ore, il che non è possibile. Te l’ho detto che è pazzesco.
— Ma…
— Sssshh. Ascoltate, — l’interruppe Pete.
Una voce umana, confusa ma inequivocabile, stava uscendo dalla radio, mescolandosi coi segnali scanditi in codice. E poi una musica, sottile e stridula, ma senz’ombra di dubbio un violino. Che suonava il Largo di Haendel.
Solo che tutt’a un tratto la musica prese a scivolar via verso frequenze sempre più alte e insopportabili… e continuò fino a oltrepassare il limite superiore di udibilità e nessuno riuscì più a sentirla.
Qualcuno esclamò: — Spegnete quel maledetto affare! — Qualcun altro lo fece e questa volta nessuno riaccese.
Pete riprese: — Anch’io stentavo a crederci. E c’è un’altra cosa a sfavore, George. I segnali influenzano anche la TV, ma quelle prime onde radio sono della frequenza sbagliata per poterlo fare.
Scosse lentamente la testa. — Dev’esserci qualche altra spiegazione, George. Ora, più che ci penso, più sono convinto di sbagliarmi.
Aveva ragione. Sì, aveva torto.
— Assurdo, — disse il dottor Ogilvie. Si tolse gli occhiali, corrugò ferocemente la fronte e se li rimise. Fissò i numerosi fogli dattiloscritti che stringeva in mano e li scaraventò con disprezzo sulla superficie della scrivania. Scivolarono fin sull’altro lato andando a fermarsi contro il supporto prismatico della targa che diceva:
B.R. OGILVIE
Direttore
— Assurdo — ripeté.
Casey Blair, il migliore dei suoi giornalisti, soffiò un anello di fumo e vi infilò il dito indice. — Perché? — chiese.
— Perché… ma sì, è del tutto assurdo.
Casey Blair insisté: — Ora sono le tre del mattino. L’interferenza continua ormai da cinque ore e nessun programma ci arriva più alla TV o alla radio. Tutte le più importanti stazioni radio o televisive del mondo hanno smesso di trasmettere.