— Ti prego, Charley. Non cercare di aprirlo. Tu… tu lo romperesti. È predisposto per bruciarsi nel momento in cui qualcuno toglie il sigillo.
Era una menzogna, e Mirtin non era bravo a raccontare bugie a Charley. Cercò di non incontrare gli occhi neri e scintillanti del ragazzo.
— Così — disse Charley — se un terrestre dovesse casualmente impossessarsene, non riuscirebbe ad aprirlo e ad imparare come funziona per costruirne un altro?
— S… sì.
— Non ce n’è un altro nella mia attrezzatura — rispose Mirtin. — E anche se ci fosse, non te lo farei aprire.
— Forse ne hai un altro? Potrei aprire l’altro e dare almeno un’occhiata prima che si bruci.
— Hai paura che apprenda troppe cose? Che venga a conoscenza di qualcosa che il popolo della Terra non dovrebbe conoscere?
— Già — ammise Mirtin. — Non dovrei nemmeno fartele vedere, queste cose. Sto infrangendo una regola, comportandomi così. Ma proprio non posso permetterti di guardare dentro. Non capisci, Charley, non serve a niente che noi veniamo semplicemente qui, vi diamo questi strumenti e lasciamo che voi li studiate e li imitiate. Ci sono delle cose che un pianeta deve scoprire da solo. Se la scoperta non viene dal di dentro, non serve a nulla. Ho visto delle civiltà andare in rovina per non aver sviluppato una propria tecnologia. Non qui, su altri pianeti. Prendevano a prestito, rubavano… e ciò ha significato la loro distruzione.
— Allora non posso guardare dentro?
— No. Cercare di immaginare che cosa c’è, sì, ma guardare, no.
— Tu non puoi muovere né le braccia né le gambe — disse Charley. — Non potresti fermarmi se lo aprissi.
— Giusto — replicò con calma Mirtin. — Non potrei fermarti affatto. L’unico che potrebbe fermarti saresti tu stesso, Charley.
Tutto ad un tratto nella caverna si era creato un grande silenzio. Charley fece scorrere la mano sull’impugnatura levigata del generatore, e rivolse due o tre occhiate fugaci in direzione di Mirtin. Poi, con riluttanza, posò lo strumento accanto agli altri.
— Vuoi una tortilla?
— Sì, grazie.
Charley scartò il pacchetto e ne tirò fuori un’altra tortilla. Come al solito, la tenne davanti alla bocca di Mirtin mentre il Dirnano, sdraiato sulla schiena, la mangiava a grosse boccate. Ad un certo punto Mirtin diede un morso ma il pezzo di tortilla gli sfuggì e scivolò dal mento verso terra. Automaticamente cercò di sollevare la mano destra per afferrare il pezzetto di tortilla mentre cadeva. Non riuscì ad afferrarlo, ma aveva mosso il braccio.
— Ehi! — esclamò Charley. — Hai sollevato la mano!
— Solo di qualche centimetro.
— Ma l’hai sollevata! Puoi muoverti di nuovo! Quando hai incominciato?
— È successo, poco per volta. Me ne sono accorto ieri. Sto riacquistando l’uso degli arti.
— Ma hai la schiena rotta.
— La colonna vertebrale è quasi guarita. I nervi stanno incominciando a rigenerarsi. È un processo rapido.
— Accidenti se lo è. Ma avevo dimenticato che tu non sei umano. Questo corpo che ti hanno messo addosso è artificiale. Meglio delle ossa umane, eh? La mia schiena si aggiusterebbe se me la rompessi?
— Non certo in questo modo.
— Non lo metto in dubbio. Quanto ci vorrà prima che tu possa camminare di nuovo, Mirtin?
— Ancora un po’. Ieri un paio di dita, oggi l’intera mano… ma ancora ce ne vuole perché possa drizzare il corpo.
— È ugualmente una cosa straordinaria. Tu stai guarendo. — All’improvviso l’umore di Charley mutò. — Quando potrai camminare di nuovo, ritornerai a Dirna, vero?
— Se riescono a recuperarmi. Non posso mettermi a sbattere le ali e decollare, lo sai. Devo attirare l’attenzione di una squadra di soccorso.
— E come farai? Con una segnalazione luminosa, o qualcosa del genere?
— Nella mia tuta c’è un dispositivo comunicatore. Trasmette un segnale che loro dovrebbero riuscire a captare.
Non c’era alcun modo di eludere l’intelligenza e la prontezza di Charley. — Se davvero hai un sistema per chiedere soccorso, come mai non te ne sei ancora servito per far venire qualcuno?
— Ho bisogno della mano per attivare il comunicatore, e la mia mano è paralizzata, giusto? Non sono in grado nemmeno di raggiungerlo.
— Be’, allora… — Charley deglutì, indeciso. — Potrei farlo io per te, no?
— L’hai già fatto — replicò Mirtin.
— Che cosa?
— Mentre esaminavi l’attrezzatura della mia tuta, hai toccato parecchie volte il comunicatore. Quel segnale viene trasmesso da giorni e giorni. Evidentemente il comunicatore non funziona bene, altrimenti mi avrebbero già trovato, a questo punto. Cioè, se mi stanno cercando.
— Non me lo hai detto.
— Tu non me l’hai chiesto.
— Saresti capace di aggiustare il comunicatore, Mirtin?
— Forse. Non lo saprò finché non riavrò l’uso completo del mio corpo.
— Potrei aggiustarlo io per te?
— Se tu ci riuscissi, e venissero a prendermi, tu non mi vedresti mai più. Vuoi che me ne vada via così presto?
— Ehi, no — rispose Charley. — Vorrei che tu rimanessi qui per sempre, che mi parlassi e mi spiegassi tante cose. Ma… ma… tu devi ritornare dalla tua gente. Hai bisogno di un dottore. Ti aggiusterò il comunicatore, Mirtin. Anche se ciò significa che tu te ne andrai.
— Ti ringrazio, Charley, ma non è ancora il momento. Non sono in condizioni tali da sopportare l’accelerazione, comunque. Devo riprendermi ancor più, prima che possano portarmi via. Così avremo altro tempo per parlare. Dopo, magari, potrai aiutarmi ad aggiustare il comunicatore. Va bene?
— Come vuoi tu, Mirtin.
Charley era tornato a guardare gli strumenti. Ne prese un altro, il disgregatore.
— Che cos’è questo?
— Un attrezzo per tagliare e scavare. Emette un raggio luminoso particolarmente potente che brucia qualsiasi cosa entro un certo raggio.
— Come un laser, vuoi dire?
— È un laser — spiegò Mirtin. — Ma molto più potente di qualsiasi laser usato sulla Terra. Con una adeguata apertura può fondere la roccia e tagliare il metallo.
— Dici davvero?
Mirtin rise. — Vuoi provarlo, non è vero? D’accordo, allora. Impugnalo per l’estremità arrotondata. Quella è la leva di comando. Fammi vedere su quale intensità è regolato. Tre metri, va bene. E adesso, puntalo sul pavimento della caverna, ed accertati che i tuoi piedi non siano nel raggio di tiro, poi premi il…
Lo strumento emise un raggio abbagliante, e disintegrò in un attimo un pezzo di terreno largo quindici centimetri e profondo quasi trenta. Charley emise un piccolo grido e spense il disgregatore. Poi lo osservò sbalordito, tenendolo davanti a sé con il braccio proteso.
— Con questo potresti fare qualsiasi cosa! — esclamò.
— Sì, è molto utile.
— Anche… anche uccidere qualcuno!
— Se ne avessi l’intenzione — obbiettò Mirtin. — Sul nostro mondo non ci sono molte uccisioni.
— Ma se fossi costretto a farlo? — insistette Charley. — Voglio dire, lavora bene ed è rapido, e… senti, a me non interessa uccidere nessuno. Perché non mi dici come funziona? Immagino che non potrò aprire nemmeno questo, ma…
Era pieno di domande. Il disgregatore lo aveva eccitato ancor più del generatore, forse perché di quest’ultimo riusciva a comprendere i principi basilari, più o meno, mentre il concetto di disintegrare la materia mediante un sistema ottico era per lui qualcosa di sconcertante. Mirtin fece del suo meglio per spiegarglielo. Si servì di analogie e di immagini, concedendosi anche qualche fantasticheria laddove la tecnologia di quello strumento era al di là della sua stessa comprensione. Charley già conosceva i laser, ma sotto forma di macchinari imponenti che richiedevano un’alimentazione di luce. Ciò che lo lasciava sbalordito, di questo, era per un verso la ridotta grandezza, e per l’altro la sua natura autosufficiente. Da dove proveniva quel raggio luminoso? Quale ne era la fonte? Si trattava di un raggio chimico, o a gas, o che altro?