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Trovarlo non era facile, tuttavia. I Dirnani fissarono immediatamente il loro avamposto di comando in un motel nei sobborghi meridionali di Santa Fe e misero in funzione i loro strumenti portatili di rilevazione, nella speranza di riuscire a chiarire il segnale e di risalire fino alla fonte. Tentarono di fattorizzare la distorsione e di restringere i vettori di ricerca. I loro primi calcoli rivelarono che l’osservatore naufragato poteva aver preso terra nelle vicinanze del villaggio di Cochiti, ma ciò si dimostrò sbagliato… oppure che, se pure il Dirnano era atterrato lì, gli indiani lo tenevano ben nascosto. Una correzione radicale nei vettori spostò la localizzazione dell’osservatore al di là del Rio Grande, accanto alle rovine del villaggio di Pecos; una rapida puntata in quel luogo diede risultati negativi, ed un riesame rivelò che anche quel calcolo era sbagliato. Il segnale proveniva dalla sponda occidentale del fiume.

Continuarono a cercare.

L’altro gruppo, che operava nella zona di Albuquerque, non aveva alcun punto di partenza se non la garanzia dei calcolatori che l’oggetto delle loro ricerche si trovava in quell’area. I loro strumenti rimanevano del tutto silenziosi, e dovettero servirsi di altri sistemi: domande molto prudenti, studio dei rapporti stilati dalla polizia e dai militari, annunci astutamente parafrasati pubblicati sui giornali. Ma non vi fu alcun risultato.

Questo gruppo era guidato da un maschio di nome Sartak che faceva mostra di un corpo terrestre robusto e fin troppo virile. Erano con lui due femmine Dirnane: una un po’ più anziana di lui, l’altra più giovane, alla sua prima missione come osservatrice ed anche al suo primo gruppo sessuale. Si chiamavano Thuw e Leenor. Quest’ultima aveva un’aria innocente ed amichevole che la rendeva utilissima per ottenere informazioni dalla gente. Sartak la spedì all’ufficio di Albuquerque del Culto del Contatto per vedere se riusciva a trovare lì qualcosa di interessante. Come tutti i Dirnani, Sartak nutriva un sincero disprezzo per la cinica inconsistenza dell’organizzazione di Frederic Storm; ma era pur sempre lontanamente possibile che qualche cittadino avesse scoperto un galattico ferito ed avesse preferito riferire il fatto all’organizzazione invece che alle autorità militari. Sartak non poteva permettersi di trascurare nessuna possibilità.

Stava programmando uno dei suoi strumenti di rilevazione, quella sera tardi, quando Leenor telefonò, fuori di sé per l’agitazione.

— Ho appena lasciato il Culto del Contatto — disse con voce ansimante. — Lì non sanno nulla di nulla. Ma… oh, Sartak, dobbiamo fare qualcosa!

— A che proposito?

— A proposito della spia Kranazoi!

Sartak fulminò con lo sguardo il video-telefono. — Che cosa?

— Era anche lui in quel luogo. Ne ho sentito l’odore al di là della stanza. Si fa chiamare David Bridger, è grasso e brutto, ed anche lui sta cercando i superstiti!

— Come hai fatto a scoprirlo?

— Origliando. Non ho parlato con lui, e non credo che si sia accorto di me. Ne sono sicura, Sartak.

Sartak emise un profondo sospiro di disgusto. Un membro della razza nemica coinvolto anche lui in quella faccenda! Non erano già abbastanza complicate, le cose?

— Sai dove alloggia? — domandò.

— In un motel non lontano dal nostro. Si chiama… l’ho scritto qui sopra…

— Qual è?

Leenor trovò il pezzetto di carta e glielo disse. Sartak ne prese nota, poi riprese: — È una seccatura, ma vedremo di fare del nostro meglio. Leenor, vai al suo motel e fatti agganciare. Fai finta di essere un po’ stupida… come al solito. Non credo che cercherà di portarti a letto, ma se lo fa, collabora. E cerca di scoprire tutto ciò che sa. Può darsi che sia già in possesso di informazioni che ci farebbero comodo.

— E se scopre la mia vera natura?

— Non succederà. I Kranazoi non hanno il nostro senso dell’odorato. Non ha alcun modo di sapere che cosa c’è sotto la tua pelle, e molto probabilmente non ha sufficiente esperienza in fatto di terrestri da accorgersi che tu non sei ciò che sembri. Mantieniti calma, fai molte risatine da sciocca, ed ascolta con attenzione tutto ciò che dice.

— Ma se se ne accorge, Sartak?

— Hai con te una granata antiuomo, no? Noi stiamo agendo in base agli accordi, e lui no. Se tenta qualche mossa ostile, uccidilo.

— Ucciderlo?

— Uccidilo — ripeté Sartak con voluta brutalità. — Lo so, lo so, qui siamo tutti esseri civili. Ma siamo dei soccorritori, e lui è un intruso. Piazzagli la granata nella pancia e fallo fuori, Leenor. Se è necessario, cioè. Chiaro?

La ragazza sembrava un po’ disorientata.

— Chiaro — disse.

CAPITOLO SEDICESIMO

Charley Estancia teneva sempre il laser Dirnano legato sul ventre con una cinghia, anche quando dormiva. Non osava staccarsene mai. Per fortuna era abbastanza piccolo da non sporgere sotto i vestiti, soprattutto se lui lasciava penzolare i lembi della camicia. Il freddo del metallo contro la pelle gli dava un senso di sicurezza.

Sapeva che non avrebbe dovuto rubarlo in quel modo a Mirtin. Ma non era riuscito a resistere. Quel piccolo strumento lo aveva affascinato a tal punto che lui se lo era messo in tasca mentre Mirtin guardava dall’altra parte. Sperava che l’uomo delle stelle gli avrebbe perdonato quel furto, ma non ne era troppo sicuro.

La cosa peggiore era che Charley non riusciva a trovare il modo per lasciare il villaggio. Le danze della Società del Fuoco erano in pieno svolgimento, ed era rischioso allontanarsi. Dovevano essere presenti tutti. Stavano mettendo in scena le iniziazioni; sceglievano i nuovi candidati e li conducevano nel kiva per rivelare loro a mezza bocca le parole semidimenticate, poi li riconducevano fuori per eseguire la danza del fuoco e la danza dell’ingoiamento di bastoni. Charley non si aspettava di essere scelto come membro della Società del Fuoco; tutti nel villaggio sapevano che era una testa calda, ed era meglio che le teste calde rimanessero al di fuori delle società segrete. Ma c’era sempre l’assurda possibilità che quell’anno lui venisse scelto per l’iniziazione, e se fosse stato così, e non lo avessero trovato, allora Charley sarebbe stato davvero nei guai.

Perciò dovette rassegnarsi, lasciando che Mirtin se la cavasse da solo. Non temeva che Mirtin potesse morire di sete o di fame; ciò che realmente lo preoccupava era l’idea che l’extraterrestre arrivasse a pensare che Charley gli aveva rubato il laser e lo aveva abbandonato, dopo tutte le loro conversazioni amichevoli. Charley non aveva avuto occasione di parlargli della Società del Fuoco e della sua danza. Aveva sbagliato i calcoli, pensando che dovesse incominciare un giorno più tardi. Aveva deciso di metterne a conoscenza Mirtin subito prima dell’inizio delle celebrazioni, ma ormai non poteva più farlo. Si aggirava per il villaggio come un disperato, in cerca di un modo per allontanarsene. Il villaggio era pieno di turisti. Dappertutto macchine fotografiche, corpulente donne bianche che facevano i complimenti ai bambini, mariti dall’aria annoiata. I turisti erano dovunque, perfino nelle case. Si sarebbero infilati nel kiva, se il governatore non avesse piazzato un paio di muscolosi giovanotti a guardia dell’ingresso.

Nei suoi pochi momenti di intimità, Charley esaminò lo strumento che aveva rubato.

Esitava ad aprirlo; non ora, almeno. Ciò che gli aveva detto Mirtin sulle cose che un terrestre non avrebbe dovuto conoscere non preoccupava Charley; lui aveva paura che si potesse rompere mentre lo apriva. Prima di tutto voleva studiarlo nei particolari dall’esterno, per capire come funzionava.

Se ne servì per tagliare a metà un grosso ciocco di legno. Lo puntò addosso ad una roccia ed osservò la pietra ridursi ad una pozza liquefatta. Scavò un solco profondo trenta centimetri e largo tre metri. Commise qualche errore, mancando il bersaglio o coprendo una zona troppo vasta, ma dopo un’ora aveva imparato a maneggiarlo con assoluta padronanza. Proprio un bel giocattolo, pensò. Un piccolo miracolo. Quegli uomini delle stelle erano davvero eccezionali! Gli sarebbe piaciuto potersi recare a dare un’occhiata al pianeta di Mirtin. Ed andare a scuola lì.