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Mirtin non c’era.

All’inizio, confuso, Charley pensò di aver sbagliato caverna. Ma ce n’era soltanto una come quella sulla scarpata, lo sapeva bene. Ed alla luce del giorno che penetrava all’interno, poteva vedere la striscia che aveva scavato lui stesso sul pavimento con il laser l’ultima volta che era stato lì. Era la caverna giusta, ma Mirtin se ne era andato, insieme a tutte le sue cose… la sua tuta, la sua attrezzatura. Tutto. Che cosa era successo? Dov’era Mirtin? Non poteva essersi alzato ed allontanato con le sue gambe, poiché non era ancora in grado di usarle. Perciò…

Charley scorse il bigliettino sul pavimento della caverna.

Era un pezzetto di carta giallastra, piccolo e quadrato, e non aveva la consistenza della carta ma piuttosto di qualche sostanza plastica. Su di esso c’erano poche parole, scarabocchiate in una specie di rozza calligrafia, come se colui che le aveva scritte non fosse in grado di usare bene la mano, o non fosse molto padrone della lingua inglese, o forse entrambe le cose. Diceva:

Charley,

finalmente i miei amici mi hanno trovato. Mi stanno portando via per completare il processo di guarigione. Mi dispiace di non poterti dire arrivederci, ma non sapevo che sarebbero venuti così presto. Ti ringrazio con tutto il cuore per le molte cose buone che hai fatto per me.

A proposito di ciò che hai preso in prestito da me: è tuo, puoi tenerlo ormai. Non sono per questo in collera con te, tienilo pure. Studialo. Impara ciò che puoi da esso. Solo, non mostrarlo mai ad altra persona. Me lo prometti?

Tieni sempre gli occhi aperti, cerca di capire il mondo e ricordati che un uomo non ha sempre undici anni. C’è una magnifica vita che ti aspetta, se tu saprai essere lì a viverla. Un giorno, molto presto, la tua gente raggiungerà le stelle. Mi piace pensare che tu sarai fra loro, e che tra poco ci ritroveremo di nuovo lassù. Fino ad allora…

Mirtin

Charley lesse la lettera una mezza dozzina di volte. Poi, delicatamente, la ripiegò e se la infilò sotto la camicia, accanto al laser. Inquieto, strascicò i piedi, tracciando dei segni sul terreno della caverna.

Quindi, a voce alta, disse: — Sono contento che il tuo popolo ti abbia trovato, Mirtin. Sono contento che tu non ti sia arrabbiato per il laser.

Poi si gettò a faccia in giù sul suolo morbido della caverna.

Pianse come non aveva più fatto dai tempi dell’infanzia.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

— Due razze aliene che ci osservano — disse Tom Falkner. — Be’, immagino che sia abbastanza comprensibile.

— E che si osservano l’un l’altra, per di più — aggiunse Glair. Stava in piedi accanto alla finestra opacizzata della camera da letto di Falkner, candidamente nuda, sorreggendosi a due bastoni. Fece un passo di prova, poi un altro, e un altro ancora. Le sue gambe acquistavano sempre più forza man mano che camminava, e Glair cominciava a manifestare un cauto ottimismo. — Come vado? — domandò.

— Meravigliosamente. Sei in ottima forma.

— Non mi riferivo al mio corpo. Intendevo come cammino.

— Bene lo stesso — rispose Falkner, mettendosi a ridere ed avvicinandosi a lei, e facendo scorrere le sue mani con gesto rapido ma possessivo sui decisi contorni del suo corpo. Le dita si soffermarono sui seni morbidi e flessuosi. — Quasi quasi incomincio a credere che sia tutta roba genuina! — esclamò.

— Adesso non perdere il senso della prospettiva.

— Ti amo, Glair.

— Io sono un essere dall’aspetto repellente giunto qui da un altro pianeta a bordo di un disco volante.

— Ti amo lo stesso.

— Sei pazzo.

— Molto probabilmente — rispose compiacente Falkner. — Ma non te ne preoccupare. Mi ami, Glair?

— Sì — bisbigliò lei.

Il fatto strano era che lei sapeva di essere sincera. Aveva iniziato quella relazione mossa dalla pietà per Falkner — il povero terrestre si era trovato invischiato in così tanti nodi psicologici — e, poiché lui l’aveva accolta in casa sua e l’aveva curata fino alla completa guarigione, provava della gratitudine nei suoi confronti, e voleva fare qualcosa per lui. Falkner sembrava così solo, così confuso, così pieno di problemi. Sembrava aver bisogno di un po’ di calore e di sicurezza, e in questo Glair era una specialista. La pietà e la gratitudine non sono mai basi molto solide per il vero amore, Glair lo sapeva bene, anche quando le persone coinvolte appartengono alla stessa razza. Non si aspettava che da ciò nascesse qualcosa. Eppure, mentre Falkner continuava a prolungare di giorno in giorno la sua licenza per malattia, lei si era sentita scivolare impercettibilmente in un sentimento di reale affetto per lui.

Sotto quella scorza di amarezza, c’era della vera forza. Da quando aveva fallito come astronauta, la sua vita aveva preso una brutta piega, e da allora nulla gli era andato più per il verso giusto, ma fondamentalmente Falkner non era quei debole che sembrava alla prima impressione. Il bere, quell’umiliante autocommiserazione, la deliberata creazione di ostacoli sulla sua strada… erano tutti effetti, e non cause. Quella tendenza si poteva invertire e, una volta fatto ciò, il risultato sarebbe stato un essere umano sano, felice e soddisfatto. Quando Glair se ne accorse, cessò di considerarlo come un oggetto rotto da riparare, e cominciò invece a vederlo sul piano di una relazione del tutto alla pari.

Naturalmente, non avrebbe mai potuto esserci qualcosa di duraturo. Quando Falkner era nato, lei aveva già cento anni terrestri, e sarebbe vissuta per altre centinaia di anni dopo la sua morte. Aveva un’esperienza di gran lunga più vasta di quanto lui potesse immaginare. Perfino un terrestre di mezza età diventava un ragazzino dall’animo candido, a paragone con il più innocente dei Dirnani, e Glair era tutt’altro che innocente.

Anche l’unione fisica, poi, era irreale. Glair provava piacere tra le sue braccia, sì, ma si trattava soprattutto del piacere di dare piacere, unito ad un debole, insignificante pulsare del suo sistema nervoso esterno. Quello che lei e Falkner facevano a letto era piacevole, ma non era certamente sesso, almeno non nel significato a lei accessibile come Dirnana. Naturalmente Glair si era ben guardata dal farglielo capire, benché lui forse avesse ugualmente intuito qualcosa. Aveva conosciuto molte donne che si baloccavano in quel modo con gli animali domestici.

Eppure Falkner era ben più che un animale domestico, per lei. Malgrado l’abisso che li separava in fatto di età e di maturità, malgrado l’estraneità delle loro nature, malgrado tutto, provava un affetto caldo e reale per quell’uomo. Ciò la stupiva, la rendeva felice e — poiché alla fine avrebbe dovuto lasciarlo — le creava non pochi problemi.

— Fai un altro giro della stanza e mettiti a sedere — le disse Falkner. — Non devi stancarti troppo, all’inizio.

Glair annuì, si afferrò ai bastoni e cominciò a muoversi per la camera da letto. A mezza strada fu colta da un’improvvisa debolezza, ma aspettò che le passasse e poi riprese la sua marcia verso il letto. Vi si abbandonò sopra, lasciando cadere a terra i due bastoni.

— Come ti senti le gambe, adesso?

— Sempre meglio.

Le massaggiò i polpacci e la parte interna delle ginocchia. Lei si lasciò andare sul letto, rilassandosi. I graffi e le contusioni che le avevano sfigurato il volto erano ormai tutti spariti. Glair era tornata ad essere bellissima, il che la solleticava non poco. Falkner la accarezzò in un modo stranamente casto, come se quel suo gesto non fosse affatto il preludio ad un rapporto sessuale.

— Due razze di osservatori? — le chiese. — Raccontami tutto.

— Ti ho già detto troppo.

— I Dirnani e i Kranazoi. Chi di voi ci ha scoperto per primi, comunque?

— Nessuno lo sa — rispose Glair. — Ciascuna razza afferma che i suoi esploratori sono stati i primi a scoprire la Terra. Sono trascorse tante migliaia di anni che onestamente non si può più affermarlo con certezza. Mi piace pensare che i primi siamo stati noi, e che i Kranazoi siano soltanto degli intrusi, ma forse non faccio che credere alla nostra stessa propaganda.