Infine riuscì a dire: — Sai che cos’è il SOA? Lo Studio Oggetti Atmosferici?
Glair ne aveva sentito parlare. — È l’organizzazione fondata da voi terrestri americani. Per osservare gli osservatori, se si può dire così.
— Sì. Per osservare gli osservatori. Be’, io lavoro per il SOA. Il mio compito è quello di raccogliere ogni possibile informazione in merito a ciò che quegli idioti chiamano dischi volanti, e controllare se in esse c’è qualche fondamento di verità. Sono pagato tutti i mesi per dare la caccia agli alieni. Non capisci, io non posso tenerti qui! È mio dovere consegnarti al mio governo! Mio dovere, dannazione!
CAPITOLO OTTAVO
Per tutto il giorno Charley Estancia si era dedicato alle sue abituali occupazioni come se tutto fosse perfettamente normale. Si era svegliato all’alba, come sempre; nessuno riusciva a dormire a lungo nelle due stanze della casa di mattoni imbiancata a calce che ospitava i quattro adulti ed i cinque ragazzi della famiglia Estancia. Il pupo, Luis, cominciava a frignare al primo canto del gallo. Ciò provocava abitualmente una sequela di imprecazioni da parte di George, zio materno di Charley, un ubriacone che comunque aveva sempre il sonno agitato; Lupe, sorella di Charley, rispondeva di solito con altre imprecazioni, e così cominciava la mattinata. Tutti andavano avanti e indietro per la casa, insonnoliti e di pessimo umore. La nonna di Charley accendeva la cucina per le tortillas, sua madre si occupava del piccolo Luis, l’altro fratello di Charley, Ramon, accendeva il televisore e vi si piantava davanti, mentre suo padre si dileguava silenziosamente fuori finché non era pronta la colazione; sua sorella Rosita, infine, goffa e trasandata nella camicia da notte malridotta, si inginocchiava davanti all’altare e pregava con voce monotona, senza dubbio chiedendo perdono per i nuovi peccati, qualsiasi essi fossero, che la sera prima aveva aggiunto a quelli precedenti. Era sempre così ogni mattina, e Charley Estancia lo detestava. Gli sarebbe piaciuto poter vivere da solo, in modo da non dovere imbattersi nella malizia di Lupe, nella stupidità di Ramon, nei miagolii di Luis e nel corpo seminudo di Rosita, che dava spettacolo di sé in casa; in modo da non dover ascoltare gli striduli lamenti di sua madre e le repliche sottomesse e avvilenti, da fallito, di suo padre; in modo da non dover più essere vittima delle fantasie senili di sua nonna, sempre in attesa di un tempo in cui la vecchia religione sarebbe stata seguita di nuovo. L’esistenza in un museo vivente come quello non era piacevole. Charley detestava ogni cosa del villaggio: le sue strade polverose e non pavimentate, le sue tozze case di fango, la sua mescolanza di disordinate vecchie abitudini e di sgradevoli nuove usanze, e soprattutto le orde di turisti dalla faccia pallida che si facevano vivi ogni luglio ed agosto per osservare la gente di San Miguel come se si trattasse di animali in un giardino zoologico.
Ora, finalmente, Charley aveva qualcosa per distogliere la sua mente da tutti quei pensieri. C’era l’uomo delle stelle, Mirtin, dentro la grotta vicino all’arroyo.
Mentre si dedicava alle sue grigie incombenze giornaliere, Charley non riusciva a togliersi dalla testa la meraviglia e l’eccitazione di sapere che un uomo venuto dalle stelle lo attendeva là fuori. Era proprio come aveva affermato Marty Moquino: quella vampa di luce nel cielo non era stata una meteora, ma un disco volante che era esploso. Che cosa avrebbe detto Marty Moquino, se avesse saputo di Mirtin?
Charley Estancia era deciso a non permettere che ciò accadesse. Non poteva fidarsi di Marty. Marty pensava solo a se stesso; avrebbe venduto Mirtin ad un giornale di Albuquerque per un centinaio di dollari, ed il giorno dopo avrebbe acquistato un biglietto d’autobus per Los Angeles, e sarebbe scomparso. Charley non aveva in programma di fornire a Marty Moquino neppure il minimo indizio di ciò che si trovava in quella grotta vicino all’arroyo.
Dalle nove a mezzogiorno della mattina Charley andò a scuola. Un vecchio autobus arrugginito giungeva al villaggio cinque volte a settimana, tranne che nella stagione delle messi, e raccoglieva tutti i ragazzi tra i sei ed i tredici anni, conducendoli alla grossa scuola statale per gli indiani. La scuola non insegnava loro granché. Charley immaginava che le cose stessero più o meno così: bisognava tener tranquilli gli indiani, costringerli nelle riserve, in modo che i turisti potessero andare a vederli. Tutto denaro per lo stato. Su a Taos, dove avevano il più grande e fantastico villaggio della zona, facevano pagare due dollari solo per portarsi appresso la macchina fotografica. Perciò l’istruzione era ben poca cosa nella scuola statale… un po’ di lettura, scrittura ed aritmetica. La storia che insegnavano era la storia dell’uomo bianco: George Washington e Abramo Lincoln. Perché non insegnavano la storia del villaggio?, si chiedeva Charley. Perché non insegnavano come erano giunti lì gli spagnoli ed avevano fatto schiavi gli indiani? E di come questi ultimi si erano ribellati, e di come il grande spagnolo, Vargas, aveva represso nel sangue la rivolta? Forse, si diceva Charley, non vogliono mettere strane idee nelle nostre testoline felici.
A volte Charley otteneva i migliori risultati, a scuola, a volte i peggiori. Tutto dipendeva dall’interesse che riusciva a metterci, perché gli argomenti erano facili. Sapeva leggere, sapeva scrivere, sapeva far di conto ed altro ancora. Aveva imparato da solo l’algebra da un libro, perché con l’algebra si poteva capire in che rapporto stavano fra loro le cose. Aveva anche studiato un po’ di geometria. Conosceva le stelle, e sapeva come funzionavano i razzi. Una donna che insegnava alle scuole pensava che lui doveva diventare falegname nel villaggio, ma Charley aveva altre idee per la testa. C’era un insegnante, uno molto in gamba, il signor Jamieson, il quale aveva affermato che, fra due anni, quando fosse stato più grande, Charley sarebbe dovuto andare al liceo. Al liceo di Albuquerque non c’era separazione fra gli indiani e gli altri. Chi aveva voglia e capacità di apprendere, poteva farlo, e non importava se i suoi capelli erano neri e lucenti o no. Ma Charley già sapeva che cosa sarebbe successo, se avesse chiesto ai suoi genitori di andare al liceo. Gli avrebbero detto di farsi furbo, di imparare a fare il falegname come diceva quella donna. Marty Moquino era andato al liceo, gli avrebbero detto, e quale vantaggio gli aveva portato? Aveva solo imparato a fumare, a bere, a frequentare le ragazze. Aveva bisogno di andare al liceo per quelle cose? Non lo avrebbero lasciato andare, Charley lo sapeva, e ciò significava che probabilmente lui sarebbe fuggito da casa.
All’una del pomeriggio ritornò a San Miguel dopo aver trascorso la solita inutile mattinata a scuola. Nel pomeriggio aveva occupazioni diverse a seconda del periodo dell’anno. La primavera era, naturalmente, la stagione della semina. Tutte le donne e i bambini lavoravano nei campi. In estate venivano i turisti. Charley doveva aggirarsi qua e là, dimostrarsi servizievole e lasciare che scattassero le loro fotografie, sperando poi che gli regalassero un quartino. In autunno c’era il raccolto, e in inverno giungeva il tempo dei rituali sacri, che iniziavano proprio nel mese di dicembre con la danza della Società del Fuoco, e proseguivano poi con tutto un calendario di celebrazioni fino a primavera. Le celebrazioni significavano lavoro per tutti; il villaggio doveva essere ripulito e drappeggiato di vivaci ornamenti, gli uomini dovevano ridipingere i loro costumi, le donne dovevano cuocere una gran quantità di vasellame da vendere. Nelle intenzioni quei rituali dovevano portare le leggere piogge primaverili, ma Charley sapeva che in realtà portavano solo i turisti invernali, la gente bianca che non si stancava mai di osservare i riti strani e primitivi degli indigeni. La stagione iniziava nel territorio Hopi con la danza del serpente, e proseguiva poi via via attraverso Zuni fino ai villaggi del Rio Grande.