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— Sì, ti prego.

Soddisfatto, Charley osservò l’uomo delle stelle paralizzato mentre mangiava.

Poi riprese: — Dovremmo avere frigoriferi, riscaldamento, strade asfaltate, vere case, e tante altre cose. Invece viviamo nel fango. Abbiamo i televisori e le macchine, tutto qui. Il resto è ancora come nel 1500. È così che hanno voluto, e la cosa mi fa star male. Lo sai che cosa voglio, Mirtin? Voglio andarmene. Voglio andare a Los Angeles ed imparare a costruire i razzi. O diventare uno spaziale. So un sacco di cose. E potrei impararne molte altre.

— Però sei troppo giovane per andartene di casa?

— Già. Undici anni! Diavolo, chi vorrebbe avere undici anni? Se lascio casa, mi arrestano di corsa. E alla scuola del riformatorio non insegnano elettronica. Sono bloccato qui. — Raccolse un po’ di sabbia fredda dal terreno della caverna e la scagliò contro la parete lontana. — Senti — continuò poi il ragazzo. — Io non voglio parlare del mio piccolo e lurido villaggio. Raccontami del tuo mondo, vuoi? Dimmi tutto!

Mirtin rise. — Ci sarebbe molto da parlare. Da dove devo cominciare?

Dopo una breve esitazione, Charley domandò: — Avete delle grandi città?

— Sì. Molto grandi.

— Più grandi di New York? Di Los Angeles?

— Alcune, sì.

— Avete aerei a reazione?

— Qualcosa di simile — rispose Mirtin. — Usiamo… — fece una risatina — … usiamo i generatori a fusione. Ne hai visto uno che esplodeva nel cielo, ricordi?

— Oh, sì. Che sciocco! I dischi volanti! Che cosa li fa muovere? Qualcosa come l’energia solare?

— Sì — rispose Mirtin. — Un piccolo generatore a fusione che crea un plasma tenuto sotto controllo da un forte campo magnetico. Ciò che è successo alla nostra nave è stato causato dall’indebolimento di questo campo magnetico.

— Oh, oh! Bum!

— Un bum gigantesco. È così che viaggiamo, però, sulle nostre navi rotonde ed appiattite, che voi chiamate dischi volanti.

— Quanto vanno veloci? — chiese Charley. — Ottomila chilometri l’ora?

— Più o meno — replicò Mirtin, vago.

Charley prese la sua risposta come una conferma. — Perciò potete andare da qui a New York in un’ora, eh? E sul vostro pianeta andate altrettanto veloci. Quanti abitanti ha il tuo pianeta?

Mirtin rise. — Non dovrei raccontarti tutte queste cose. Si tratta, come si dice, di informazioni riservate. Segretissimo.

— Suvvia! Non lo dirò ai giornali!

— Be’…

Charley fece dondolare una tortilla sopra le labbra dell’uomo delle stelle. — Ne vuoi un’altra, o no?

Mirtin sospirò, e i suoi occhi scintillarono nell’oscurità. — Abbiamo otto miliardi di abitanti — rispose. — Il nostro mondo è un po’ più grande della Terra, benché la gravità sia più o meno la stessa. E poi non occupiamo tanto spazio come voi. Siamo piuttosto piccoli. E adesso posso avere la tortilla?

Charley gliela diede. Mentre Mirtin masticava, il ragazzo lo interrogò sulle sue ultime affermazioni.

— Intendi dire che non assomigliate a noi?

— Proprio così.

— Già, hai detto che dentro siete differenti. Ma io immaginavo che aveste le ossa differenti, magari il cuore e lo stomaco sistemati in posti diversi. Siete molto più differenti?

— Molto più differenti — rispose Mirtin.

— E come siete? Dimmi a che cosa assomigliate senza il camuffamento.

— Piccoli. Lunghi meno di un metro, direi. Non abbiamo ossa, ma solo un rinforzo cartilaginoso. Noi… — Mirtin si interruppe. — Preferirei non descrivermi, Charley.

— Vuoi dire che in questo momento, dentro di te, dentro quello che io vedo, c’è una cosa del genere? Non più grande di un bambino, tutta rannicchiata dentro di te? È così?

— È così — ammise Mirtin.

Charley si alzò e si diresse verso l’imboccatura della caverna. Si sentiva scosso da quella rivelazione, ma non avrebbe saputo spiegare il perché. Nel breve tempo intercorso dal momento in cui aveva conosciuto Mirtin, si era abituato a pensare all’uomo delle stelle come ad un uomo, appunto, qualcuno che era nato su un altro pianeta nello stesso modo in cui si nasce in ogni luogo, ma non troppo diverso, in fondo. Più intelligente di un terrestre, ma non diverso da lui, se non per la collocazione dei suoi organi interni. Invece pareva che Mirtin assomigliasse in realtà ad una specie di grosso verme. O peggio ancora. In effetti non si era descritto. Charley sollevò gli occhi verso le tre stelle luminose, e gli sembrò di accorgersi solo allora di aver fatto amicizia con chissà quale creatura aliena.

— Vorrei un’altra tortilla — disse Mirtin.

— Questa è l’ultima. Non credevo che fossi così affamato, conciato com’eri.

— Rimarresti sorpreso della fame che ho.

Charley lo nutrì. Poi parlarono un altro po’. Parlarono del pianeta di Mirtin, che si chiamava Dirna, parlarono degli osservatori e del perché osservavano la Terra, parlarono di stelle e di pianeti e di dischi volanti. Quando Mirtin si stancò di quegli argomenti, la conversazione mutò soggetto, e parlarono di San Miguel. Charley cercò di spiegare che cosa significava vivere in un villaggio tuttora ancorato ad abitudini preistoriche. Le parole gli sgorgarono ribollenti, mentre cercava di esprimere la frustrazione che provava, di comunicare la frenetica impazienza che lo tormentava, la fame di conoscere, di sapere, di vedere, di fare.

Mirtin ascoltò. Era un buon ascoltatore, che sapeva quando tacere e quando porre una domanda. Sembrò capire. Raccomandò a Charley di non preoccuparsi, di continuare semplicemente ad osservare ed a fare domande, e sarebbe giunto il tempo in cui avrebbe lasciato San Miguel per il mondo più vero. Ciò era incoraggiante. Charley fissava ad occhi sgranati quell’ometto dagli occhi amichevoli e la frangia di capelli grigi, e non riusciva ad accettare il fatto che Mirtin fosse una cosa di gomma senza ossa, sotto quella parvenza umana. Mirtin sembrava così umano, così gentile. Come un dottore o un insegnante, a parte il fatto che non era distratto e lontano, come i dottori e gli insegnanti che conosceva Charley. L’unico che avesse mai parlato a Charley in quel modo era il suo bravo signor Jamieson; e c’erano delle volte in cui il signor Jamieson dimenticava il nome di Charley e lo chiamava Juan, o Jesus, o Felipe. Mirtin non avrebbe mai dimenticato alcun nome, si disse Charley.

Dopo un poco decise che forse doveva aver fatto stancare l’uomo delle stelle. E non poteva rischiare di trattenersi troppo a lungo fuori dal villaggio. — Adesso devo andare — disse allora. — Tornerò domani, quando sarà buio. Ti porterò molte altre tortillas, e potremo parlare ancora. Va bene, Mirtin?

— Mi sembra un’ottima idea, Charley.

— Sei sicuro di star bene? Non hai troppo freddo, o qualcosa del genere?

— Sto benissimo — lo rassicurò Mirtin. — Ho solo bisogno di starmene qui sdraiato finché non sarò guarito. E se tu vieni da me, e mi porti tortillas ed acqua, e parliamo un po’ ogni sera, credo che guarirò molto prima.

Charley fece una smorfia. — Mi piaci, lo sai? Sei un amico. Non è tanto facile trovare degli amici. Arrivederci, Mirtin. Abbi cura di te.