— Guarda, mamma, è un serpente! — gridò Jill.
— I serpenti non hanno le gambe, tesoro — ribatté Kathryn. — Ma è bellissimo lo stesso. Vieni a mettere il cappotto.
— Dove andiamo?
— Io devo andare in città. Tu andrai a giocare per un po’ dalla signora Webster, d’accordo?
Jill, senza lamentarsi, si fece mettere il cappotto. Come ogni bambina di tre anni, si adattava facilmente a qualsiasi cambiamento di programma e d’ambiente. Ricordava ancora il suo papà morto, ma solo in modo vago; in realtà ricordava più che altro di aver chiamato «papà» qualcuno, e non una persona specifica. Se in quel momento Ted avesse varcato la soglia di casa, forse Jill non lo avrebbe nemmeno riconosciuto. Nella stessa maniera, in breve tempo, anche il ricordo del gattino sperduto era svanito dalla sua memoria. Quanto all’improvviso ed inesplicabile arrivo di Vorneen in casa, Jill non sembrava preoccuparsene troppo. Aveva accettato il fatto come un fenomeno materiale tutt’altro che straordinario, come il sorgere del sole o l’arrivo del postino. Opportunamente, Kathryn si era ben guardata dal dire a sua figlia di non parlare a nessuno di Vorneen, poiché la bambina l’avrebbe fatto di sicuro. Per Jill, Vorneen era un visitatore, qualcuno che stava in famiglia, e dopo il secondo giorno aveva già perduto ogni interesse apparente nei riguardi dell’uomo che giaceva nel letto di sua madre.
Kathryn portò Jill da una vicina che abitava dall’altra parte della strada e con la quale coltivava un vago e superficiale rapporto di amicizia. La vicina aveva quattro figli sotto i dieci anni, ed uno in più non sembrava costituire un problema per lei. — Puoi guardarmi Jill fin verso le cinque? — le chiese Kathryn. — Devo recarmi in città. — Molto semplicemente. Jill la salutò con un solenne cenno della mano.
Cinque minuti più tardi Kathryn era sulla superstrada, diretta verso Albuquerque ad una velocità di centoventi chilometri l’ora. Il motore a batteria elettrica della sua macchina, silenzioso e ben a punto, sembrava pulsare di energia. Oltrepassò veloce Bernalillo e si ritrovò nei sobborghi di Albuquerque. A quell’ora il traffico non era intenso. Il cielo invernale era chiazzato da nuvole grigie, e l’orizzonte era offuscato. Forse sarebbe nevicato. Ma c’erano persone, in città, che le avrebbero potuto raccontare qualcosa dei dischi volanti, e quella era una buona occasione per parlare con loro.
Quando ebbe sistemato la macchina nel grosso parcheggio sotto Rio Grande Boulevard, Kathryn si diresse ad est verso la città vecchia. Sull’elenco del telefono scoprì che l’ufficio del Culto del Contatto aveva sede in un indirizzo di Romero Street. Naturalmente loro non si definivano in quel modo; quello era solo il nome del giornale, e Kathryn sapeva che ai cultisti non piaceva che si pensasse a loro a quel modo. La denominazione ufficiale del gruppo era «Società per la Fratellanza dei Mondi». Kathryn l’aveva trovato nell’elenco sotto «Organizzazioni Religiose».
Una piastra di bronzo brunito, montata sul davanti di un vecchio e malconcio edificio, indicava l’ufficio locale — o chiesa? — della Società per la Fratellanza dei Mondi. Kathryn esitò sull’ingresso, avvampando di un rossore improvviso nel ricordare con quanta acidità Ted le aveva parlato di quell’organizzazione, con i suoi orpelli di misticismo esasperato, le sue riunioni a Stonehenge e Mesa Verde, la sua mescolanza religiosa di antichi rituali e di moderne apparecchiature scientifiche. Ted aveva affermato che metà dei membri del Culto del Contatto erano degli imbroglioni, e l’altra metà dei creduloni, e che Frederic Storm, il capo, era il più grande imbroglione di tutti. Kathryn si scrollò di dosso ogni esitazione. Ormai le opinioni di Ted non contavano più. Non era venuta lì per aderire al culto, ma solo per ottenere delle informazioni.
Entrò.
L’interno elegantemente arredato smentiva la facciata squallida dell’edificio. Kathryn si ritrovò in una piccola anticamera dal soffitto alto, vuota ad eccezione di due sedie di ottima fattura ed una splendente imitazione in bronzo della statua che costituiva il marchio di fabbrica dell’organizzazione: una donna nuda, con gli occhi chiusi, e le braccia allargate in un benvenuto rivolto alle stelle. Kathryn aveva sempre pensato che quell’emblema fosse straordinariamente insulso, ma ora, con un senso di disagio, non ne era più tanto sicura. Su tre lati della stanza sontuose porte di mogano immettevano negli uffici interni.
Sapeva benissimo di essere controllata. Trascorse un attimo, e una delle porte si aprì. Ne uscì una donna sui quarant’anni, che le dedicò un rapido sorriso professionale. Aveva i capelli tirati severamente indietro sulla fronte, e vestiva in modo austero ma elegante. Sul colletto portava una spilla che rappresentava il piccolo emblema stilizzato di un disco volante, una specie di distintivo del Culto del Contatto.
— Buon pomeriggio. Posso aiutarla?
— Ah… sì — rispose indecisa Kathryn. — Io vorrei… alcune informazioni…
— Vuole seguirmi?
Si ritrovò bruscamente convogliata in un ufficio che avrebbe fatto la felicità di un presidente di banca. La severa accompagnatrice dall’aria pratica si sedette dietro una scrivania ad angolo. Kathryn vide l’espressione sofferta e volutamente mistica di Frederic Storm che la fissava dalla parete in una foto tridimensionale alta quasi due metri. Der Führer, pensò. Heil!
— Lei è un po’ in anticipo per la nostra funzione serale di benedizione e di unità universale — le disse la donna. — Avremo Frederic Storm in onda alle otto di stasera, e dovrebbe trattarsi di un evento memorabile. Ma nel frattempo possiamo dedicarci ad un orientamento preliminare. Ha mai fatto parte prima d’ora di qualche capitolo della Società?
— No — rispose Kathryn. — Io…
— Allora c’è solo una semplice formalità. — La donna spinse verso di lei un cubo di registrazione. — Se vorrà rispondere a qualche domanda per noi, la registreremo subito, ed incominceremo ad introdurla nell’armonia del nostro gruppo. Immagino che lei sia al corrente in linea di massima sui nostri scopi e sulle nostre credenze. — La donna fece un cenno eloquente verso la risplendente immagine di Frederic Storm sulla parete. — Forse ha letto parecchi dei libri di Frederic Storm sui suoi contatti con i nostri fratelli dello spazio? È uno scrittore straordinario, non le pare? Io non riesco a capire come possa una persona razionale leggere i suoi libri e non accorgersi che…
Kathryn la interruppe, disperata. — Mi spiace, non ho letto nessuno dei suoi libri. E non sono neppure venuta qui per la funzione. O per aderire al movimento. Volevo solo delle informazioni.
L’espressione di calore professionale svanì. — Lei fa parte dei «media»? — le domandò con sospetto la donna.
— Intende dire se sono una giornalista? Oh, no. Sono solo una… — Kathryn fece una pausa, alla ricerca del modo migliore per affrontare la cosa. — Solo una normale casalinga. Sono preoccupata per quelle cose nello spazio, i dischi volanti e così via, e non so proprio da dove incominciare con le mie domande; so solo che voglio saperne di più, se esistono esseri nello spazio esterno, lei capisce, e che cosa vogliono fare di noi, e così via. Era molto tempo che avevo voglia di fare un salto da voi; e quando ho visto quel globo di fuoco, qualche sera fa’, be’, mi ha fatto decidere. Sono venuta appena mi è stato possibile. Ma sono del tutto ignorante in materia. Con me, lei dovrà cominciare dall’inizio.