— Fuori — disse Mirtin alle sue spalle.
E allora Vorneen lasciò la nave. Malgrado il suo tormento, eseguì il balzo alla perfezione. Quello era il momento in cui gli incubi diventavano concreti; ogni osservatore sognava centinaia di volte di fare il balzo, ma in genere rimaneva un semplice sogno. E invece eccolo lì, che precipitava verso il basso, con un vuoto di quarantacinque chilometri sotto di lui, e Glair probabilmente già morta, ed un pianeta di stranieri ostili che lo attendeva. Eppure, con una strana calma, inserì il suo sistema per il sostentamento vitale, ed avvertì l’impatto improvviso quando lo schermo frenante spiegato equilibrò la sua caduta. Sarebbe sopravvissuto.
E Mirtin?
Era difficile guardare in su. Vorneen ci provò. Ma si trovava ormai migliaia di metri più in basso della nave, e non riuscì a vedere né la nave, né alcun segno di Mirtin. Era saltato? Certamente. Mirtin aveva fatto della razionalità il suo idolo; non era tipo da panico dell’ultimo minuto, né da rimanere a bordo della nave condannata. Senza dubbio, in quel momento Mirtin stava cadendo dolcemente verso la Terra. Vorneen tornò a guardare verso il basso.
Un attimo dopo vi fu l’esplosione.
Fu più orribile di quanto avrebbe mai immaginato. Se si fosse verificata un istante prima, mentre stava stupidamente guardando verso l’alto, gli avrebbe bruciato gli occhi. Ma anche così tremò per il terrore, mentre i cieli sopra di lui risplendevano della luce vivida di un sole appena nato. Non c’erano radiazioni dure in un generatore a fusione; né lui né le lontane città avrebbero subito danni. Né le molecole ben spaziate dell’atmosfera avrebbero trasmesso troppo rumore. Avvertì una sensazione di calore sul collo e sulle spalle, ma in definitiva si trattava semplicemente di un piccolo sole, abbastanza potente per fornire energia ad un vascello spaziale di dimensioni ridotte, ma non certo suscettibile di procurare ustioni a lui, né alcuna sensazione di calore a chi si trovavava più in basso. Ciò che lo atterriva era la luce, quel selvaggio bagliore che lo sovrastava e che tracciava una scia nel cielo. Era come se l’universo si fosse spaccato proprio in quel punto, facendo risplendere la luce primigenia della creazione. Chiudere gli occhi servì a ben poco. Che impressione se ne avrà, dalla Terra? si domandò. Proveranno terrore o sgomento? O sembrerà forse una grossa meteora, e niente più?
Eccola lì, che seguiva la traiettoria di quella che era stata la nave. Almeno non sarebbero rimasti frammenti del vascello, a sollevare misteri sulla Terra: ben magra consolazione. Ma quella luce! Quella luce mostruosa!
Vorneen perse conoscenza.
Quando riprese il controllo di sé, vide con spavento una fila di case non lontane dai suoi piedi penzolanti. Di già sulla Terra; così presto? Un altro migliaio di metri e finalmente avrebbero toccato il suolo del pianeta.
Ormai Glair doveva essere atterrata. Cercò di non pensare al suo destino. Era Mirtin che doveva rintracciare, e, prima lo trovava, meglio era; poi, insieme, avrebbero atteso l’equipaggio di soccorso che ben presto sarebbe giunto per ricondurli via. Per il momento, il problema era sopravvivere. Maledí la sorte che lo aveva portato proprio nel bel mezzo della civiltà, con tante zone disabitate intorno. Vorneen fece del suo meglio per dirigersi lontano dalle case, verso il desolato pianoro appena al di là della città.
Il suolo si stava precipitando verso di lui. Non immaginava che l’atterraggio fosse così. Non si doveva planare delicatamente a terra? No. No. Stava cadendo come una bomba. Si sarebbe spiaccicato proprio sopra il tetto dell’ultima casa di quella fila. Avrebbe…
Deviò, ma solo di qualche metro.
Poi lo aggredì e lo stordì il più tremendo dolore che avesse mai provato, nel corso di una vita pressoché priva di dolori, e l’uomo delle stelle atterrò pesantemente, e giacque immobile, più morto che vivo.
CAPITOLO TERZO
All’Ufficio di Albuquerque dello Studio Oggetti Atmosferici era tutto pronto per la partenza mezz’ora dopo l’avvistamento del globo infuocato. Gli addetti alla manutenzione avevano installato delle batterie completamente cariche a bordo dei sei mezzi cingolati elettrici; il calcolatore aveva già fornito un diagramma a vettori con i possibili luoghi d’atterraggio per eventuali relitti provenienti dallo spazio; Bronstein, assistente del colonnello Falkner, aveva convocato tutti gli uomini liberi da incarichi. Adesso erano in piedi in un semicerchio ansioso attorno allo schermo luminoso dell’ufficio principale, e fissavano con occhi sgranati la scia rosseggiante che segnava la rotta tracciata dall’Oggetto Atmosferico.
Cinque metri più oltre, al di là della porta chiusa a chiave del bagno, Tom Falkner stava cercando disperatamente di recuperare la sua sobrietà.
Durante il percorso in jeep dalla sala ufficiali, Falkner aveva ingurgitato una tavoletta antistimolante; si trattava di piccoli utili prodotti che garantivano il risveglio di una mente intorpidita dall’alcool in mezz’ora, o giù di lì. Ma non era un procedimento piacevole. Le pillole suscitavano una doppia azione stimolante sulla tiroide e sulla ghiandola pituitaria, sconvolgendo temporaneamente l’equilibrio ormonale e mettendo in frenetico movimento l’intero metabolismo. Tutti i processi fisici venivano accelerati, incluso quello che eliminava l’alcool dal sangue. Sotto l’effetto degli antistimolanti, si vivevano sei o sette ore in una situazione ambientale di tempo reale che durava circa dieci minuti. Era un sistema d’urto, ma funzionava. Se dopo una serata trascorsa ad istupidirsi con proprio comodo si scopriva all’improvviso di dover assolutamente recuperare la propria lucidità nel più breve tempo possibile, non c’era altra alternativa che servirsi delle tavolette.
Falkner si accasciò sul pavimento a piastrelle del bagno, afferrandosi al portasciugamani con entrambe le mani. Tremava, e grosse gocce di sudore gli macchiavano l’uniforme. Aveva il volto congestionato, il polso che batteva ad oltre cento pulsazioni al minuto, e continuava a crescere, ed il tremendo battito del suo cuore era come un tamburo che rimbombava nella cassa toracica. Aveva già vomitato, liberandosi delle ultime poche decine di grammi di scotch prima che avesse la possibilità di penetrare a fondo nel suo organismo, e quella violenta purga interna si stava prendendo cura del resto. Il suo cervello si stava schiarendo. Era solo la quarta o quinta volta nella sua vita che aveva ritenuto opportuno far uso di antistimolanti, ed ogni volta aveva sperato che fosse l’ultima.
Dopo un tempo interminabile si rialzò.
Le sue dita, protese a titolo sperimentale davanti a sé, si dimenarono come se stesse battendo a macchina. Cercò di riprenderne il controllo. Adesso il sangue era defluito dal suo volto. Falkner si guardò allo specchio, e rabbrividì nel vedersi. Era un uomo corpulento, dalle spalle poderose, con i capelli neri e ricciuti tagliati corti, baffi sottili ed ispidi ed occhi iniettati di sangue. Quando aveva fatto parte dei progetti spaziali era stato molto attento a non superare gli ottanta chili, ma quei tempi erano ormai lontani, e lui era ingrassato fino al limite massimo della sua costituzione, e forse più. In uniforme aveva un aspetto massiccio e robusto; privato di quell’esoscheletro color kaki, tendeva a curvarsi e a gonfiarsi un poco. Non era orgoglioso di ciò che era diventato nella mezza età, ma non era stato lui a sollevare il problema dell’orecchio interno, né la questione dei dischi volanti.
Ora si sentiva un po’ meglio. Si sciacquò la faccia con l’acqua fredda, si asciugò il sudore, e si sistemò il colletto. Benché non ancora perfettamente sobrio, non avvertiva più gli effetti peggiori della sua alzata di gomito. La sensazione di prurito alla punta del naso era sparita; non si sentiva più le orecchie come pezzi di cartone; i suoi occhi funzionavano come ci si sarebbe aspettato da un qualsiasi paio d’occhi. Muovendosi con molta cura, Falkner aprì la porta del bagno e si diresse verso l’ufficio.