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Adesso avevano tirato fuori anche qualche astronomo. Un certo Alvarez, di Monte Palomar, aveva rilasciato una dichiarazione. E lo stesso aveva fatto un tale chiamato Matsuoko, un famoso astronomo giapponese. Alvarez aveva forse visto il globo con i suoi occhi? Nulla nelle sue parole indicava di sì. E Matsuoko? Naturalmente no. Eppure ambedue parlavano in tono saputo di meteore, facendo sottili distinzioni fra meteora e meteorite, soffocando tutte le paure sotto un fiume di frasi rassicuranti. A mezzanotte il governo comunicò alcune delle informazioni ricavate dalle reti di intercettazione e dai satelliti di osservazione. Sì, quella meteora era stata avvistata. No, non c’era nulla da temere. Un semplice fenomeno naturale.

Falkner si sentì male.

Il suo scetticismo radicato ed ostinato riguardo agli Oggetti Atmosferici era pari solo al suo scetticismo radicato ed ostinato nei confronti degli annunci ufficiali del governo. Se il governo si dava tanto da fare per tranquillizzare la gente, allora significava che c’era qualcosa di grosso che destava preoccupazione. Era assiomatico. D’altra parte, allenato com’era a leggere tra le righe dei messaggi ufficiali artefatti, Falkner aveva il profondo e persistente bisogno di credere nella futilità e nella vuotezza della sua stessa missione. Non poteva concedersi il lusso di considerare i dischi come una cosa reale. Però non credeva nemmeno al governo.

Ormai era mezzanotte passata da un pezzo. Diede un’occhiata al collo taurino del suo autista, isolato da lui nel compartimento anteriore, e soffocò uno sbadiglio. Avrebbe viaggiato per tutta la notte. Ad Albuquerque non c’era nulla ad attenderlo, tranne un letto vuoto ed una giornata piena di mozziconi di sigaretta. Sua moglie era in vacanza a Buenos Aires con il suo nuovo marito. Falkner si era ormai abituato a stare solo, ma non gli piaceva molto. C’era chi trovava sfogo nel lavoro, in casi del genere, ma Falkner si diceva sempre che il suo non era un lavoro da adulti.

Alle tre del mattino si trovava proprio sul ciglio delle montagne. C’era una strada che attraversava la foresta nazionale, quella tracciata dai taglialegna, e lui avrebbe potuto prenderla, se lo avesse voluto, ma ordinò al guidatore di voltare. Sarebbe ritornato ad Albuquerque seguendo un lungo tragitto circolare, intorno alla Mesa Prieta, sfiorando il villaggio di Jemez, e poi giù lungo il lato occidentale del Rio Grande fino a casa. A Topeka erano ancora svegli, e forse anche a Washington. Buon per loro, gli eroi.

Il flusso di informazioni sui diversi canali stava diminuendo. Per riempire il tempo, Falkner fece scorrere più volte il nastro registrato con il globo di fuoco. Aveva già raccolto una mezza dozzina di istantanee, prese in diversi punti lungo la traiettoria. Le studiò con attenzione, e dovette ammettere che quell’improvvisa scia ardente doveva aver fatto una certa impressione. Peccato che fosse stato impegnato ad ingozzarsi di liquore e non avesse potuto vederla. Però assomigliava ancora alla scia di una meteora, si disse cocciuto Falkner. Una grossa meteora, ma che c’era di strano? Che dire, allora, di quella che si era andata a schiantare nella foresta siberiana nel 1908, scavando quel po’ po’ di buco? O del gigantesco cratere causato dalla meteora caduta in Arizona? Che cos’erano, se non fenomeni naturali?

E la violenza della radiazione luminosa?

Ne aveva discusso con Bronstein due ore prima.

— Immaginiamo una massa di materia anti-terrena che penetri nella nostra atmosfera — aveva detto Falkner. — Un paio di tonnellate di anti-ferro, diciamo. Un gran turbine di antiprotoni e antineutroni che incontrano e disintegrano la materia terrestre.

— Ma questa è roba vecchia, Tom.

— E allora? È plausibile, no?

— Non abbastanza. Comporta la necessità di postulare una grande massa di antimateria da qualche parte del nostro universo — aveva replicato Bronstein — e non c’è alcuna prova concreta che una massa del genere esista, o addirittura che possa esistere. È un’ipotesi molto più semplice quella di postulare una razza extraterrestre intelligente che abbia inviato qui degli osservatori. Basta che tu applichi il Rasoio di Occam alla tua idea dell’antimateria, e ti renderai conto di quanto sia sballata come teoria.

— Applicati il Rasoio di Occam sulla gola, Bronstein. E spingi forte.

A Falkner piaceva quell’idea, malgrado le obiezioni di Bronstein. Certo, violava la legge dell’ipotesi meno complicata; ma il Rasoio di Occam era uno strumento logico, non una condizione immutabile dell’universo, e non funzionava in ogni condizione. Falkner sbatté più volte gli occhi, desiderando di avere con sé dello scotch. Pallidi segni dell’alba stavano cominciando a rigare il cielo ad oriente. Nella capitale del paese era mattina, e tutti erano già in piedi a creare i consueti ingorghi di traffico. Ora, considerando questo concetto dell’antimateria in modo rigoroso, troviamo…

Qualcosa fece ping su uno dei sistemi di rilevazione esterna del cingolato.

— Ferma il veicolo! — gridò Falkner al guidatore.

Il cingolato si fermò. Il ping no. Con molta circospezione, Falkner esaminò i dati di input e cercò di scoprire che cosa diavolo stesse succedendo. Individuò la causa del disturbo. I rilevatori stavano captando il calore emesso da un essere umano con una massa da quaranta a cinquanta chili, entro un raggio di meno di un chilometro. I rilevatori di metallo confermarono la cosa, fornendo una quantità di dati. Là fuori c’era qualcuno.

La città più vicina si trovava a trenta chilometri di distanza. E nello spazio di venti chilometri non c’era nemmeno una strada. Era una zona desolata, null’altro se non gruppi di arbusti, qualche ciuffo di iucca e di altre erbe locali, e qua e là alcuni alberi di ginepro o di pino cresciuti per sbaglio lì invece che nelle regioni montuose. Niente ruscelli, né stagni, né case. Nulla. E nessuno viveva in quella zona. Quella terra non era buona per nulla. Falkner si disse che il suo rilevatore stava captando qualche campo notturno di boy-scouts, o qualcosa di ugualmente innocente. Nondimeno, doveva controllare. Lasciando il guidatore a bordo del cingolato, Falkner uscì all’esterno.

Da quale parte?

Un migliaio di metri da coprire… era un bel po’, se si riferiva il raggio alla circonferenza e si cominciava a ragionare in termini di superficie. Accese il faro al mercurio che portava sul fianco, ma non gli fu di molto aiuto; in quella luce grigiastra che precedeva l’alba, l’illuminazione artificiale era pressoché inutile. Decise di dare un’occhiata in giro per quindici minuti e poi di chiamare un elicottero per far venire una squadra di ricerca. Il guaio con quei complicati congegni di rilevazione era che in un raggio più ristretto non funzionavano affatto bene.

Scelse una direzione a casaccio e si incamminò sul terreno sabbioso e irregolare. Quando ebbe percorso cinquanta passi, vide, in mezzo ad un gruppetto di alberi di salvia, qualcosa che sembrava un mucchio di vecchi abiti, e vi si diresse correndo, in preda ad una specie di frenetico, terribile eccitamento che non riusciva a capire.

Quando raggiunse il mucchio di abiti, si accorse che si trattava di una donna, bionda, giovane, con un bel viso, a parte le macchie di sangue sulle labbra e sul mento. Era viva, ma sembrava priva di conoscenza. Indossava una specie di tuta spaziale di un modello che Falkner non aveva mai visto prima, con un elaborato sistema di propulsione a razzi, una levigata visiera, ed un tessuto scintillante di una strana bellezza. Sospettò subito che quella ragazza fosse un’osservatrice russa o cinese, costretta a lanciarsi col paracadute in seguito a chissà quale imprevisto nel volo. I lineamenti, naturalmente, erano tutt’altro che cinesi, ma non c’era motivo perché Pechino, in caso di necessità, non assoldasse come spia una bionda di Brooklyn. Se in quei tempi una tuta spaziale cinese aveva quell’aspetto, bisognava levarsi tanto di cappello.