— Hai ragione. — Hoffman sganciò il collare e Buck si lanciò nella grotta. A metà cunicolo, nel punto in cui Tommy era arrivato, finiva la pista, e Buck si accucciò. I due uomini rimasero per un po’ in ascolto.
— Credo che si possa entrare — disse Hoffman alla fine.
Si chinò sulle ginocchia e strisciò all’interno. Garner lo seguì.
Quando raggiunsero il centro della grotta, nel punto in cui Buck li stava aspettando, si accorsero che il soffitto permetteva loro di alzarsi. Era buio, ma riuscivano a vedere abbastanza bene.
— Be’, eccoci arrivati — disse Garner. — Dato che Buck si è fermato, questo deve essere il punto in cui è arrivato Tommy. Non c’è niente. È solo un bel posto fresco. Mettiamoci a sedere, e riposiamo prima di tornare.
Si accomodarono a terra. La mente cominciò a studiare il cane. Era il potenziale animale-schiavo più grande che le fosse capitato.
Da quel momento Buck sarebbe stato suo se le fosse mai capitato di aver bisogno di lui. O di qualsiasi altro cane sorpreso nel sonno.
E Buck, stanco per la corsa lungo la pista, si addormentò. La mente considerò la possibilità di farlo schiavo, ma aspettò. Fosse entrata in Buck, avrebbe avuto solo i sensi del cane, non i suoi.
— Mi sto chiedendo perché Tommy sia venuto qui — disse Hoffman.
— Chi potrà mai saperlo, Gus! Era fuori di senno, ecco tutto. Probabilmente aveva scoperto questa grotta da ragazzino, se n’è improvvisamente ricordato, ed è venuto a nascondersi per sfuggire a chissà cosa. Come si fa a sapere cosa passa nella mente di una persona quando ha perso la ragione?
— Per nascondesi… Può darsi. Ma se fosse venuto in questa grotta per nascondere qualcosa? O per dissotterrare qualcosa nascosta in precedenza? Non chiedermi cosa ma il fondo della grotta è sabbioso, e si può scavare facilmente con le mani.
— Ma cosa avrebbe potuto nascondere? O dissotterrare?
— Non so. Ma cerchiamo.
Lo scontro fu più percettibile di quello avuto con il cervello del topo, ma la mente si trovò dentro Buck quasi nello stesso istante. Il cane sollevò la testa.
Lei, pensò la mente con il cervello di Buck, non sarebbe riuscita a uccidere tutti e due gli uomini. Però, con un attacco improvviso, sarebbe forse riuscita a morderli prima che potessero uccidere o fermare il cane. Questo, con tutta probabilità, avrebbe fatto loro dimenticare di fare ricerche. Con tutta probabilità sarebbero corsi in paese dal dottore. Non perché il morso in se stesso potesse essere pericoloso, ma perché avrebbero temuto quella malattia che si chiamava rabbia, e che anche Tommy e la ragazza avevano nominata.
— Non adesso, Gus — disse Garner. — Senti, non credo che ci sia qualcosa da trovare. Però possiamo tornare domani. Prima di tutto, è troppo buio per lavorare senza lanterna. Non ti pare? E ci vorrebbe anche una pala, e un rastrello. In secondo luogo ci manca il tempo. Partendo subito, saremo a casa poco prima di pranzo. E ci dobbiamo ancora pulire e cambiare per l’inchiesta.
— Penso che tu abbia ragione, Jed. Meglio andare. Se non altro abbiamo saputo una cosa che possiamo dire all’inchiesta. Sappiamo dove era Tommy e dove è rimasto fino al momento in cui ha visto la luce delle nostre lanterne.
Buck tornò ad abbassare la testa. Quando i due uomini uscirono strisciando dalla grotta lui li seguì, e si mise a camminare accanto a Hoffman, proprio come avrebbe fatto il vero Buck, fino a che ebbero raggiunta la strada.
Poi si lanciò di corsa nella direzione opposta a quella presa dai due uomini. Ma non si buttò subito tra le piante. Non voleva far loro sospettare neppure lontanamente che stava tornando alla grotta. Hoffman lo chiamò, ma lui non fece caso alla voce del padrone e continuò a correre.
Quando fu fuori dalla loro vista rallentò l’andatura e tagliò per il bosco. Non c’era sentiero in quel punto, ma senza affidarsi al senso di orientamento di Buck e alla sua conoscenza della zona, la mente guidò il cane direttamente verso la grotta.
Una volta nella grotta Buck scavò i venti centimetri di sabbia, sollevò con i denti il guscio della mente, lo portò fuori dall’antro e lo depose delicatamente a terra. Poi tornò nella grotta e ricoprì il buco che aveva scavato. Quando lo ebbe riempito, si rotolò diverse volte sulla sabbia in modo da far sparire qualsiasi segno dello scavo. Poi tornò a uscire e raccolse la mente. Non era più pesante di una pernice, e lui, per trasportarla, usava la stessa delicatezza con cui avrebbe stretto in bocca un uccello ferito.
Si spinse nel folto del bosco, evitando i sentieri e le piste usate dai cacciatori, e si mise a cercare il posto più selvaggio e solitario. In un grosso tronco d’albero circondato da cespugli scoprì un piccolo buco tra le radici. Poteva servire, per un po’ almeno. Depose il guscio a terra, e con una zampa lo spinse nel buco in modo da farlo completamente sparire alla vista.
Poi si allontanò proseguendo nella stessa direzione. Se qualcuno con un altro cane avesse seguito la pista di Buck, sarebbe passato accanto a quell’albero senza fermarsi. Dopo alcune centinaia di metri Buck si accucciò a terra, e la mente fece il punto della situazione.
Era al sicuro, e se i due uomini fossero tornati nella grotta a scavare non l’avrebbero trovata. Le conveniva tenersi Buck come schiavo? Considerò attentamente questa possibilità, ma alla fine decise che non ne avrebbe avuto nessun vantaggio. Buck le era servito per uno scopo ma rimanendo nell’animale sarebbe rimasta limitata ai sensi dell’animale. Non avrebbe potuto studiare altri potenziali schiavi e non sarebbe stata in grado di entrare in loro.
Buck s’avviò, facendo un lungo giro, verso la strada.
Aspettò ai margini finché vide arrivare una macchina. Poi, all’ultimo momento, quando ormai il guidatore non avrebbe fatto più a tempo a frenare, si lanciò sotto le ruote.
Di nuovo in se stessa, un minuto dopo (tanto era occorso a Buck per morire), la mente pensò a tutto ciò che aveva appena fatto e si convinse che questa volta non aveva commesso errori. Tranne uno, che d’altra parte le sarebbe stato impossibile evitare. Avrebbe dovuto far lanciare Buck sotto un’altra macchina. Al volante di quella che lo aveva investito c’era Ralph S. Staunton, laureato in filosofia, laureato in scienze, e professore di fisica al Politecnico del Massachusetts.
Il dottor Staunton non aveva un aspetto imponente. Era piccolo e magro. Aveva cinquant’anni e i capelli erano tutti grigi. Ma possedeva una forza eccezionale, e una agilità di movimenti che lo facevano sembrare molto più giovane.
La prima cosa che si notava in lui erano gli occhi: estremamente vivaci. Quando era soddisfatto, cosa che gli capitava abbastanza spesso, i suoi occhi splendevano come gemme.
Quel giorno era in vacanza, indossava un abito comodo e quasi trasandato. E aveva bisogno di farsi la barba. Nessuno, vedendolo, avrebbe pensato di trovarsi di fronte ad uno dei più importanti scienziati di tutto il paese.
6
Imprecando fra i denti, il dottor Staunton frenò per fermare la macchina. Non era colpa sua. Non avrebbe potuto in nessun modo evitare l’investimento del cane. Comunque, era sempre un fatto spiacevole.
Ma cos’era preso a quel cane? Era comparso dal nulla balzando dai cespugli che costeggiavano la strada. Anche se non si era fermato per guardare, doveva aver sentito il rumore della macchina in arrivo! Era l’unico suono che si sentiva lì nella campagna. La macchina sua poi, una vecchia berlina acquistata due settimane prima a Green Bay, dopo essere arrivato in aereo dal Massachusetts, era alquanto rumorosa. L’aveva pagata così poco che, anche rivendendola per niente alla fine delle sue vacanze nel Wisconsin, gli sarebbe sempre costata meno che prendere una macchina a nolo per sei settimane.