Spense il motore, scese dalla macchina e si incamminò verso il cane. Non era possibile che fosse sopravvissuto. Tutte e due le ruote, sia quella anteriore che quella posteriore, erano passate sul corpo dell’animale. Dato che la bestia doveva morire, gli sarebbe spiaciuto vederla soffrire in agonia. Il corpo era à circa venti metri dietro la macchina. Sembrava che non si movesse, ma quando Staunton giunse a dieci passi dal cane, si accorse che la bestia era ancora viva e respirava in modo convulso.
Imprecò ancora una volta e tornò verso la macchina. Non aveva pistola, ma una chiave inglese sarebbe benissimo servita allo scopo. Prese il ferro e tornò di corsa verso il cane, ma ormai l’animale era morto. Aveva gli occhi spalancati e vitrei.
— Mi spiace, vecchio — disse Staunton a bassa voce. — Immagino che adesso dovrò cercare il tuo padrone per dirgli cos’è accaduto.
Si chinò ad afferrare il cane per le zampe, per portarlo sul ciglio della strada. Ma si fermò. Il cane avrebbe dovuto essere in ogni modo seppellito, da lui o dal suo padrone. Se lo avesse lasciato lì per andare a Bartlesville alla ricerca del padrone, impresa che avrebbe potuto richiedere anche qualche ora, al suo ritorno avrebbe trovato la bestia coperta di formiche, e il lavoro di seppellirlo sarebbe stato ancor meno piacevole. In macchina non aveva pala, però c’era un vecchio telo impermeabile che poteva benissimo servire allo scopo. Prese il telo e lo distese a terra, poi sollevò il cane, lo avvolse con cura e lo caricò nel bagagliaio della macchina.
Poco dopo, nella piccola città, entrò in diversi negozi per fare acquisti, e a tutti i bottegai descrisse il cane: un cane da caccia maschio, a chiazze bianche e marroni… Al terzo tentativo una persona gli disse che doveva trattarsi del cane di Gus Hoffman, e che in quel momento era in città per assistere all’inchiesta sul suicidio del figlio, avvenuto la sera prima. L’udienza aveva luogo nell’obitorio del paese.
Il dottor Staunton non aveva mai assistito a un’inchiesta, e dato che era curioso di sapere come venivano condotte, raggiunse l’obitorio. L’inchiesta era appena incominciata. Tutte le sedie erano occupate, ma diverse persone stavano appoggiate alla parete di fondo della sala, e il dottor Staunton si mise accanto a loro per ascoltare.
Sul banco dei testimoni c’era Charlotte Garner. A poco a poco Staunton sentì una grande ammirazione per la ragazza, per la sua calma e coraggiosa franchezza nel raccontare tutta la verità riguardo alla relazione avuta con Tommy Hoffman e gli avvenimenti del giorno prima. Quando Charlotte ebbe finito di descrivere le sue ricerche, la sua ansia, la corsa pazza fino a casa per avvertire i genitori, il magistrato inquirente dichiarò di non aver altro da chiedere. Ma c’era ancora una cosa da dire, così ribatté la ragazza. Le domande che le erano state rivolte non le avevano permesso di parlare del topo. Lei invece voleva parlarne, perché poteva anche darsi che Tommy, quando aveva dato la manata all’animale, fosse stato morsicato e di conseguenza infettato da qualche specie di idrofobia…
Il magistrato la lasciò finire, poi, prima di chiamare il testimonio seguente, volle spiegare alla giuria i sintomi dell’idrofobia, sottolineando che il periodo di incubazione della malattia era relativamente lungo. Il morso di un topo non avrebbe potuto infettare Tommy immediatamente, e oltre tutto non sarebbero stati quelli i sintomi. Infine, disse, anche ammettendo che il topo fosse affetto da idrofobia, cosa che avrebbe potuto spiegare lo strano modo di comportarsi dell’animale, le mani di Tommy non presentavano segni di morsicature.
Il testimonio successivo fu Gus Hoffman. Poi parlò Jed Garner. Le loro storie furono identiche perché praticamente erano stati sempre insieme.
Il dottor Staunton ascoltò con molta attenzione, specialmente quando venne nominato il cane, Buck… La sera prima Buck aveva seguito le tracce di Tommy. E quel mattino Buck li aveva guidati fino alla grotta. Alla fine testimoniò lo sceriffo.
Poi la giuria si ritirò in un’altra stanza, ma ne uscì quasi immediatamente con il verdetto: suicidio dovuto a improvvisa pazzia. La gente cominciò a sgombrare la sala.
Staunton fece per raggiungere l’uomo al quale apparteneva il canie, ma Hoffman scomparve in un ufficio assieme a Garner e a Charlotte. Senza dubbio era andato a dare disposizioni per il funerale.
Allora raggiunse lo sceriffo, si presentò e raccontò l’investimento del cane.
— Forse è meglio che io abbia parlato con voi anziché con il signor Hoffman — disse allo sceriffo. — Il signor Hoffman ha già avuto un brutto colpo per la perdita del figlio… Lasciamogli pensare che il cane è scappato e che si è perso. Lentamente si renderà poi conto che la bestia non tornerà più indietro. Che cosa ne pensate?
Lo sceriffo si grattò la testa.
— Be’… — esitò.
— Posso farvi una proposta? — riprese Staunton. — Mentre voi riflettete su ciò che conviene fare, io vi faccio alcune domande sul suicidio, argomento che m’interessa moltissimo. Perché non andiamo a bere qualcosa al bar di fronte?
Al bar, Staunton ordinò una birra, riempì la pipa, e l’accese. La birra gelata era molto buona, e stava finendo il bicchiere quando lo sceriffo prese posto di fronte a lui.
— Bel colore, quella birra — esclamò, e girandosi verso il banco: — Ehi, Hank, porta due birre. Grandi. — Poi si rivolse al forestiero. — Mentre venivo qui ho pensato che forse avete ragione. È meglio non dire a Gus del cane. Ma a proposito, se avete lasciato il cane sulla strada, quando torna a casa Gus può vederlo. O qualcuno potrebbe telefonargli di averlo visto.
Staunton scosse la testa.
— L’ho avvolto in un telone impermeabile, e l’ho messo nel portabagagli della mia macchina. Lo seppellirò quando arrivo a casa. — Riaccese la pipa che nel frattempo si era spenta. — Mi dispiace moltissimo per quel cane. Ma non ho potuto fare niente. È balzato fuori all’improvviso. Non ho avuto neppure il tempo di toccare il freno.
— Strano — disse lo sceriffo. — Buck aveva paura delle macchine, e quando ne sentiva una arrivare correva in mezzo ai campi. Aveva il terrore delle macchine, come altri cani hanno il terrore delle armi.
Staunton fissò lo sceriffo.
— Allora doveva essere impazzito per correre in quel modo alla cieca! C’è stato qualche caso di rabbia da queste parti?
— Niente, da un paio d’anni, e forse anche più. — Pareva che la storia non lo interessasse affatto.
Lo scienziato fissò la faccia tonda dello sceriffo domandandosi se per caso non fosse stupido. Forse no. Forse era di media intelligenza, ma privo di immaginazione. Poteva sorvolare sulla stranezza del comportamento del topo e del cane per pensare solo alle azioni di Tommy. Quelle erano importanti. Ma si trattava di un ragazzo impazzito improvvisamente, e la gente pazza agisce in modo strano. Questo doveva essere il ragionamento dello sceriffo e probabilmente di tutti coloro che avevano assistito all’inchiesta.
Cosa voleva chiedere ancora allo sceriffo? Ah, sì.
— Sceriffo… Sono arrivato a inchiesta già incominciata, e non mi è stato possibile sentire il rapporto del medico. C’è stata un’autopsia?
— Autopsia? E per quale motivo? Non c’è dubbio che il ragazzo si sia ucciso tagliandosi i polsi con un coltello.
Staunton aprì la bocca per parlare, poi cambiò idea.
— Dite — domandò lo sceriffo — sto cercando di capire quale casa abitate. È quella che si trova al termine della strada, a circa otto chilometri da qui?
— Esatto — rispose Staunton. — Il vecchio «Burton Place» come viene chiamato. Era una bella fattoria, ma ormai è completamente abbandonata. Un mio amico di Boston l’ha comprata per venire a passarvi le vacanze. Quest’estate però non ha potuto venire, e mi ha offerto di usarla al suo posto.
— Ho capito. Si chiama… Hastings. Lo incontravo qualche volta durante l’estate. C’è con voi vostra moglie o siete solo?