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In seguito lo sceriffo presentò l’uomo venuto con lui come il signor Staunton, uno scienziato che stava passando le sue vacanze vicino a Bartlesville, e che si era già molto interessato alla morte di Tommy Hoffman cercando di trovare una spiegazione per il misterioso suicidio del ragazzo. Adesso, naturalmente, quest’altro suicidio, a così breve distanza dal primo, aveva suscitato la sua curiosità, e se la signora Gross non aveva niente in contrario, Staunton avrebbe avuto piacere di farle qualche domanda.

La signora Gross disse che avrebbe parlato volentieri con lo scienziato, e offrì persino il caffè, così l’avrebbe bevuto anche lei.

La curiosità del dottor Staunton pareva insaziabile. Fece almeno un centinaio di domande, ed Elsa Gross rispose a tutte. Si interessò alla morte del gatto e alla scomparsa dei cibi dal frigorifero, e continuò a far domande a questo proposito. Pareva eccitato e perplesso.

E la mente si rese conto, quel giorno, di aver sottovalutato la curiosità degli esseri umani. In parte la colpa di questo suo errore stava sempre nel fatto di essersi più che altro regolata sulla sua conoscenza di Tommy, il quale non aveva mai nutrito in vita sua molte curiosità al di fuori dei problemi del suo piccolo mondo ristretto alle necessità della fattoria dove intendeva vivere.

Il cervello di questo Staunton, invece, da quel che la mente poté giudicare in base alle domande fatte e al suo modo di ascoltare gli altri, era completamente diverso dal cervello di Tommy. Un’autentica rivelazione. Infatti l’aveva detto lo sceriffo che quello era uno scienziato! Ma che genere di scienziato? Probabilmente, a giudicare dalle sue domande, non certo uno studioso di fisica, ma comunque poteva sempre rivelarsi un ospite più augurabile del radiotecnico di Bartlesville, semplice meccanico.

Troppo tardi pensò che avrebbe dovuto procurarsi maggiori informazioni su questo suo ospite potenziale. Ormai lo sceriffo e Staunton se n’erano andati, ed erano già fuori del raggio d’azione della sua percettività. Rapidamente si domandò se non aveva a portata un possibile ospite in grado di seguire la macchina sulla quale Staunton si era allontanato.

Per prima cosa pensò al cavallo, ma rinunciò subito. Certamente il cavallo avrebbe potuto seguire la macchina, ma la cosa avrebbe dato nell’occhio poiché esulava completamente dalle normali azioni di una bestia simile. E la mente aveva già sperimentato quanto fosse pericoloso attirare l’attenzione su un suo ospite. No, il cavallo no. Sulla Terra i cavalli non sono soliti uscire dalla loro stalla per seguire una macchina fino a destinazione.

Pensò a un uccello. Un falco sarebbe andato benissimo, trattandosi di un uccello veloce, ma non ce n’erano di addormentati entro il suo raggio d’azione. Poi prese in considerazione un gufo, dato che questi animali dormono di giorno. Ma rinunciò anche al gufo perché il volo di questi uccelli è troppo lento. Infine le venne in mente un passero. Non sapeva con esattezza quale fosse la velocità dei passeri, ma di quegli uccelli ce n’erano in abbondanza, e anche di giorno era possibile trovarne qualcuno addormentato.

Il passero scelto dalla mente stava dormendo su un albero a circa duecento metri dalla fattoria.

Appena si levò in volo, si accorse che era troppo tardi: le due macchine erano già a cinquecento metri di distanza e andavano in due direzioni diverse. Troppo lontane per la vista di un passero. Non avrebbe capito qual era la macchina giusta. E inoltre un passero non poteva comunque competere in velocità con una automobile, adesso la mente se n’era resa conto.

Dedicò tutta la sua attenzione a liberarsi dall’ospite-schiavo. Si allontanò ben bene dalla strada, addentrandosi nel bosco prima di far volare il passero dritto contro il tronco di un albero. Ricordando l’incidente del gufo si concentrò per far tenere gli occhi aperti al passero. Ma anche così il primo tentativo andò a vuoto: un ramo troppo sottile per essere visto in pieno volo colpì il passero che, invece di rompersi il collo contro il tronco, ebbe un’ala spezzata, e cadde al suolo ferito. Poiché non poteva far altro che pazientare, la mente pazientò. Il passero sarebbe morto di fame o di sete, a meno che un suo nemico naturale non lo trovasse prima. La mente non aveva fretta. Per diversi mesi non avrebbe avuto bisogno di mangiare, era quindi rassegnata ad aspettare la morte del passero anche per giorni. Ma poco prima che scendesse la notte, udì uno sbattere di ali. Un gufo. Agitò l’ala sana per attirare l’attenzione dell’uccello da preda. Il gufo vide, e pochi attimi dopo il forte becco del rapace finì il povero passero. E la mente tornò al suo guscio, nella fattoria Gross.

Giusto in tempo per sentire bussare alla porta e per «vedere» lo sceriffo davanti all’ingresso, ed Elsa Gross che gli apriva. La donna si tolse il grembiule bianco rivelando un abito nero. La signora Gross non avrebbe dovuto, spendere un centesimo per gli abiti da lutto. La mente conosceva il contenuto degli armadi e dei cassetti: quasi tutti gli abiti buoni della vedova erano neri.

— Buonasera, signora — salutò lo sceriffo. — Sono venuto a vedere se volete andare ad accordarvi per il funerale.

— Vi ringrazio, sceriffo, ma verrà a prendermi il signor Loursat fra mezz’ora. Mi ha detto che vi avrebbe telefonato…

— Probabilmente l’ha fatto, ma io sono stato in giro tutto il giorno, e poi non sono passato né da casa né dall’ufficio. — Si tolse il cappello e si passò una mano sulla testa calva. — Be’, se non avete bisogno di me…

— Non volete entrare un momento? Forse berreste volentieri una tazza di caffè. Credo che sia ancora caldo.

— Ecco… Un caffè lo accetto. Grazie.

Elsa Gross indietreggiò per lasciarlo entrare, poi chiuse la porta.

— Accomodatevi — disse, indicando una morbida poltrona. — Volete anche un po’ di latte?

— Soltanto zucchero, signora, grazie.

La donna tornò quasi subito, tese allo sceriffo una tazza, e sedette con la sua tra le mani. — È caldo abbastanza? — chiese.

Lo sceriffo assaggiò un sorso della bevanda. — Va benissimo. Non mi piace troppo caldo. Avete qualche progetto, signora Gross? Voglio dire… Non avrete intenzione di mandare avanti la fattoria da sola, vero? Forse se vi prendeste un aiuto, ma…

— No, sceriffo. Credo che venderò la fattoria. Mi hanno già fatto un’offerta.

— Posso sapere di chi si tratta?

— È per un fratello del signor Loursat, che ha sempre desiderato avere una fattoria. Qui poi sarebbe vicino ai suoi. Il signor Loursat gli ha scritto offrendosi anche di aiutarlo finanziariamente.

— E se vendete, vi stabilirete in città? A Bartlesville, voglio dire?

— Non ho ancora deciso.

— Mi sbaglio o avete un figlio e una figlia?

— Sì. Ma Siegfried aveva litigato con tutti e due, e non ci siamo più nemmeno scritti. Ormai sono passati dieci anni.

— Non sapete dove abitano?

— Bertha abitava a Cincinnati, e Max a Milwaukee. Ma non so gli indirizzi.

— Forse posso fare qualcosa per voi — disse lo sceriffo. — Scriverò al Capo della polizia di quelle due città e lo pregherò di fare il possibile per rintracciare almeno uno dei due.

— Grazie, sceriffo. — La signora Gross tentò di sorridere, ma di colpo le si riempirono gli occhi di lacrime.

Bussarono alla porta. La donna andò ad aprire asciugandosi le guance e gli occhi. Era Loursat.

Entro dieci minuti se ne andarono tutti. Prima lo sceriffo, poi gli altri due.

La mente si mise a pensare.

Ne ebbe tutto il tempo durante l’assenza della signora Gross, che rimase fuori di casa due ore, e dopo, quando la vedova se ne andò a letto.