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Quasi a convalidare la sua asserzione, il lungo collo di un Titanico si protese per frugare fra l’intrico delle sbarre, non molto lontano dal punto dove si trovavano loro tre. Eric si costrinse a restare immobile, nonostante il terrore che lo attanagliava. Quella orrenda bocca grigia, che avrebbe potuto inghiottire tre uomini in un solo boccone e da cui emanava un fetore insopportabile… Quei viscidi tentacoli rosa così vicini… Ma, evidentemente, il Titanico non li aveva visti. La testa continuava a frugare fra le file di sbarre e sfiorò inavvertitamente Roy che stava rigido e immobile. A quel contatto, il Corridore alzò le braccia, si mise a urlare e scappò. La testa del Titanico si sollevò e scomparve, mentre Roy andava ad appoggiarsi a un’altra sbarra.

«Adesso ci siamo!» mormorò Walter.

Subito dopo, una serpeggiante corda verde scese vicino a Roy, gli si avvicinò, lo afferrò, e continuò ad avanzare. Si dirigeva verso di loro.

«Dividiamoci!» ordinò Walter. «Buona fortuna, ragazzo.»

Si misero a correre in direzioni opposte. Eric stava chino, tutto raggomitolato su se stesso per essere meno visibile, e correva a zigzag. Se fosse riuscito a raggiungere la prossima fila di…

Sentì Walter gridare e sprecò un istante prezioso per voltarsi a guardare. L’Armaiolo era stato afferrato dalla corda, e si trovava a pochi passi da Roy che invano si dibatteva per liberarsi. Poi la corda si sollevò, trascinando con sé i due uomini, per tornare a scendere, subito dopo, più vicina.

Eric riprese a correre. Sentiva, sempre più vicino, le urla dei due compagni. Non poteva correre più in fretta. Non poteva…

Qualcosa di freddo, di viscido, gli sfiorò un fianco, e lui si sentì sollevare da terra. Senza volerlo, si mise a urlare come gli altri, e a martellare coi pugni la corda che lo teneva prigioniero e che, nel punto in cui aderiva al suo fianco, era di un verde scurissimo. Quella corda era diventata parte di lui, ed Eric non poteva assolutamente staccarsela dalla pelle.

Un tentacolo rosa si accostò alla corda e l’afferrò, sollevandola, insieme ai tre uomini che continuavano a urlare. E continuavano anche a salire, sempre più in alto, finché, nell’abbacinante luce che feriva gli occhi, non riuscirono nemmeno più a distinguere il pavimento. Su, su, sempre più su, affinché i Titanici di cui erano prigionieri potessero esaminarli meglio e con maggiore comodità.

15

Eric non riuscì mai a ricordare con esattezza quello che accadde in seguito. Il panico gli aveva sconvolto la mente, cancellando i ricordi. Gli rimasero solo impressioni vaghe e frammentarie: la corda che lo teneva appeso veniva passata da un tentacolo all’altro… un enorme occhio purpureo che si avvicinava… una zaffata di alito fetido… le urla dei suoi amici. Ma, più di ogni altra cosa, ricordava la sensazione di disfatta, di terrore, di completo abbandono.

Ricominciò a ragionare in modo un po’ più coerente quando la corda a cui lui, Roy e Walter erano attaccati li calò dentro una specie di scatolone trasparente, lasciandoveli. Non appena ebbe toccato il pavimento della scatola, Eric scoprì infatti che la corda si era staccata ed era scomparsa. Guardandosi intorno, vide Roy e Walter, caduti vicino a lui. Stavano rialzandosi. Poco più oltre, c’erano alcuni membri della spedizione, ancora sconvolti e tremanti, e negli istanti successivi altre corde scaricarono nella scatola il resto del gruppo degli Stranieri.

Ma cos’era quella scatola trasparente? Attraverso il fondo, Eric poteva scorgere l’intrico delle sbarre, giù giù fino al pavimento invisibile. Alle intersezioni, c’erano scatole trasparenti, cubiche, uguali a quella in cui si trovava. Alcune contenevano esseri umani, altre erano vuote.

«Ecco cos’erano i cubi con le ombre in movimento» gli disse Walter, con una smorfia. «I cubi erano gabbie, e le ombre erano uomini prigionieri.»

Intorno a loro, gli altri si erano inginocchiati e rivolgevano fervide preghiere agli antenati perché li salvassero. Ma Eric aveva altro a cui pensare. Ormai sapeva che gli antenati non avrebbero potuto aiutarlo. Si mise a camminare, e misurò la gabbia: era lunga dodici passi e larga dieci. Ci stavano un po’ stretti. Non c’erano suppellettili di nessun genere. In un angolo, il pavimento era in pendenza, verso un foro che si apriva in corrispondenza dell’intersezione dei tubi, evidentemente cavi. Dunque, i tubi sono un sistema di fognature, pensò Eric, continuando a camminare, seguito da Roy e da Walter.

Le pareti erano trasparenti e solide. Eric non riuscì a scalfirle neppure con la punta della lancia. Quanto all’altezza, così a occhio, dovevano essere alte come tre uomini messi uno sull’altro, e l’orlo si curvava all’interno verso il basso. Sarebbe stato impossibile scalare le pareti. Inoltre, l’orlo si trovava troppo lontano dal pavimento.

«Il vostro problema non è tanto quello di riuscire a scappare di qui» disse una voce fievole alle loro spalle, «bensì quello che farete una volta fuori.»

Si voltarono tutti di scatto. Chi aveva parlato era un uomo dall’aspetto bizzarro. Stava sdraiato sul pavimento poco lontano, e non pareva uno Straniero, pensò Eric, e sicuramente non apparteneva all’Umanità. Portava i capelli acconciati alla moda degli Stranieri, ma aveva il corpo avvolto in un ridicolo indumento che lo copriva dal collo alle cosce, pieno di tasche e fatto di cuoio. Dalle tasche uscivano oggetti strani, che Eric non aveva mai visto.

Lo sconosciuto era gravemente ferito. Sulla faccia, sul collo e sul fianco destro recava i segni di profonde graffiature; il braccio destro penzolava inerte, evidentemente spezzato.

«Eri già in questa gabbia, quando siamo arrivati noi?» gli chiese Eric.

«Sì, ma eravate troppo presi dalle vostre preoccupazioni per accorgervi di me.» Fece un gemito, chiudendo gli occhi, prima di proseguire. «Vedete, se anche riusciste a scappare da questa gabbia, non sapreste dove andare. Le pareti esterne sono lisce quanto quelle interne, e non potreste certo fare un salto fino a terra dalla sommità della gabbia. Non ci sono appigli di sorta, e anche se riusciste a fare una corda con le vostre cinghie, ricordatevi che da qui a terra corre l’altezza di un Titanico, e inoltre non potete essere certi che il cuoio resisterebbe… Sebbene» aggiunse con un sospiro, «forse sarebbe meglio morire così.»

«Ma tu chi sei?» gli chiese l’Armaiolo. «Chi è la tua gente?»

«Che importanza ha? E poi sono affari miei. Ora, per favore, allontanatevi. Non voglio che mi guardiate soffrire.»

«Siamo ben contenti di allontanarci» replicò bruscamente Roy. «Torneremo quando avrai imparato a essere un po’ più gentile.»

Così detto, si mosse, seguito, dopo un momento di esitazione, da Walter. Ma Eric si inginocchiò accanto al ferito e gli chiese: «Posso aiutarti in qualche modo? Vuoi un po’ d’acqua? Ne ho ancora nella borraccia.»

L’uomo si passò la lingua sulle labbra screpolate. «Grazie, ho molta sete.» Bevve avidamente dalla borraccia di Eric, e quando gliela ebbe restituita disse: «Qui ci danno da bere solo una volta al giorno. Ho preso delle pillole per i dolori, ma non avevo niente per vincere la sete. Sei stato davvero gentile… Io mi chiamo Jonathan Danielson.»

«E io Eric. Eric l’Occhio.»

«Lieto di conoscerti, Eric. Vieni dai cunicoli di superficie, non è vero?»

«Sì, la mia tribù si chiama Umanità. Solo io e Roy il Corridore, quel guerriero che se l’è presa con te, apparteniamo all’Umanità. Gli altri sono Stranieri.»

«Io sono l’unico superstite del mio gruppo. Eravamo in quattordici.» Uno spasimo di dolore strappò un gemito al ferito. «Eravamo in quattordici» ripeté, «e ci hanno preso tutti. Il calcio di un Titanico ha seminato la morte. Io sono stato fortunato. Mi ha colpito di striscio, però mi ha spezzato il braccio e alcune costole, e devo avere qualche emorragia interna.»