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«Come? Non ne hai mai visti? Per Aaron, ma da dove vieni?»

«Appartengo a una tribù dei cunicoli di superficie» rispose, evitando di dire Umanità perché ricordava con quanto disprezzo avessero considerato questa definizione gli Stranieri! «Una tribù molto piccola. Non credo che tu l’abbia mai sentita nominare.»

«Già… una tribù dei cunicoli di superficie» ripeté la ragazza. «Si capisce da come sei pettinato. A quanto pare, basta che uno porti i capelli sciolti perché i Titanici lo credano un Selvaggio. Inoltre, devono avere capito che sono una femmina, e siccome ho i capelli lunghi e sciolti, insistono a mettere nella mia gabbia dei Selvaggi nell’evidente speranza che ci accoppiamo. Ecco perché, quando ti ho visto arrivare, con tutti quei capelli che ti svolazzavano sulle spalle, mi sono detta: Rachel, ci siamo di nuovo, e siccome non ho voglia di diventare né la compagna né un boccone prelibato per qualche Selvaggio, non ho perso tempo e ho preso la lancia. Se fossi stata un po’ più calma, avrei notato le lance, la bisaccia, il perizoma, e ti avrei giudicato altrimenti.»

«Ti chiami Rachel? Io sono Eric, Eric l’Occhio.»

Lei si alzò in piedi e gli porse la mano. «Sì, sono Rachel, Rachel la Figlia-di-Ester. Sono contenta di avere qualcuno con cui parlare… Vieni dai cunicoli di superficie, eh? Capisco allora perché tu non hai mai visto i Selvaggi. Non arrivano mai fin lassù. È troppo lontano dall’Esterno. Ma la mia gente deve combattere spesso contro di loro. E i Titanici ne hanno catturati molti, per i loro esperimenti. Pare che abbiano messo trappole dappertutto nell’Esterno. Ehi, guarda!»

Eric seguì la direzione del suo sguardo: il Titanico che l’aveva trasportato lì scosse più volte la testa, con aria soddisfatta, e poi si allontanò.

«Ah, Ah!» rise Rachel. «È contento di avere finalmente trovato un compagno di mio gradimento.»

«Come fai a saperlo?» chiese Eric.

«In primo luogo non ti ho ammazzato, poi, ha visto che ci siamo scambiati una stretta di mano e deve averlo considerato un gesto amichevole. Anzi, siccome i Titanici sanno ben poco di noi, come noi sappiamo ben poco di loro, forse pensa che il gesto di stringerci la mano significhi amore, passione.»

Eric diventò rosso. Non aveva mai sentito una donna parlare in quel modo. Si affrettò a cambiare discorso.

«Appartieni alla Gente di Aaron, non è vero?» chiese.

Lei lo guardò sorpresa. «Come fai a…? Ma già, poco fa ho esclamato “per Aaron”! Che sciocca!»

«E poi l’ho intuito anche dal tuo nome. Nella gabbia dove stavo prima c’era uno che apparteneva alla gente di Aaron e si chiamava Jonathan Danielson: Jonathan-figlio-di-Daniel.»

«Jonathan? È vivo?» chiese lei con apprensione, afferandogli un braccio.

«È morto poco prima che venissi trasportato qui. Ha detto che anche un altro dei suoi compagni, uno solo, era stato preso vivo, un certo Saul Davidson. Ma poi è stato vivisezionato.»

Rachel chiuse gli occhi inorridita. «Oh… Saul era mio cugino. Ci volevamo bene. Col permesso di Aaron, ci saremmo sposati al ritorno dalla spedizione.»

«Mi dispiace» mormorò Eric carezzando la mano che gli stringeva il braccio. «E purtroppo non è tutto. Danielson mi ha detto che un Titanico ha ucciso tutti gli altri membri della spedizione, con una sola zampata.»

«Non è vero» ribatté Rachel. «Facevo parte anch’io della spedizione e so di certo che almeno tre sono stati catturati e sottoposti a esperimenti. Jonathan non era un buon capo: troppo scolastico, poco pratico. Nelle situazioni di emergenza perdeva la testa. Non ha mai visto quello che è successo agli altri perché era accecato dal panico.»

Sospirò, scosse la testa e tacque a lungo pensosa. Poi si riprese e sorrise a Eric. «Scusami» disse. «Ormai non ha più importanza. Vieni, voglio mostrarti qualcosa che forse ci potrà servire.»

Prese Eric per mano e lo portò nell’angolo della gabbia, dov’era disteso un gran pezzo di stoffa, e su quella stoffa erano cucite, vicine l’una all’altra, numerosissime tasche da cui sporgevano oggetti strani e sconosciuti. Sebbene più ampia, ricordava a Eric la tunica di Jonathan Danielson.

«È tuo?» chiese.

«Sì, mio. È il mio mantello. Vedi, al centro c’è un buco da cui faccio passare la testa, e la stoffa mi ricade tutt’intorno. È impermeabile.»

«Impermeabile?»

«Sì. A prova d’acqua. Vuol dir che l’acqua ci scorre sopra ma non si bagna. L’ho indossato nelle spedizioni all’Esterno, dove l’acqua cade dal tetto. Inoltre è una specie di laboratorio portatile. Vedi quanti utensili? Questo per esempio.» Così dicendo, estrasse da una delle tasche una sbarra piegata che lei distese in tutta la lunghezza. All’estremità, uscivano dei fili connessi a due piccoli cilindri. «Questo congegno era lo scopo della nostra spedizione» spiegò. «L’ha creato un gruppo di scienziate della Società Femminile, con l’idea che potesse servire a neutralizzare le corde verdi. Come saprai, quelle corde funzionano secondo il principio dell’affinità protoplasmatica.»

Eric annuì con aria saputa. «Così come le porte dei Titanici funzionano secondo il principio inverso: incompatibilità protoplasmatica» disse.

«Esatto» disse Rachel. «Proprio così. Bene, neutralizzare l’affinità protoplasmatica è un problema che la mia gente ha cercato di risolvere per molto tempo, ma invano. Finalmente, abbiamo costruito questo congegno, e siamo partiti, io, che sono una scienziata, e tredici uomini, per scorta e protezione, allo scopo di provare se funziona o meno. E funziona, altroché se funziona! Anche troppo bene. Siamo riusciti ad arrivare fin qui nel laboratorio, senza alcun danno. Appena entrati abbiamo visto un Titanico e mi sono subito offerta di provare il neutralizzatore. Il Titanico appena mi ha visto ha calato la corda e io l’ho toccata col neutralizzatore… Tac, la corda è ricaduta floscia, perdendo di colpo le proprietà adesive. Benone dunque. Viva la scienza, applausi su tutta la linea, eccetera. Per quello che mi riguardava, la missione era compiuta, e non vedevo l’ora di tornare a casa, anche perché, sia detto fra noi, il territorio titanico non è quello che si dice un posto di villeggiatura. Stavo tornandomene dai miei tutta soddisfatta, lasciando il Titanico con un palmo di naso a esaminare la sua corda inservibile, quando, chissà perché, a Jonathan Danielson è venuta l’idea brillante.»

«Ha pensato di portare a casa la corda come un trofeo?» disse Eric. «Se è così, non posso criticarlo. Qualunque guerriero l’avrebbe fatto. No, non posso criticarlo.»

«Ma io, sì. Stai a sentire. In primo luogo, nei nostri progetti c’era solo la riuscita dell’esperimento. Niente battaglia, niente ridicoli trofei. Stavo dunque tornandomene verso il muro, quando vedo quegli stupidi partire di corsa. Cosa potevo fare? Nonostante tutta la mia scienza, sono soltanto una donna, e chi comanda sono gli uomini anche se… Beh, lasciamo perdere. Dunque, ecco che mi vedo passare davanti al galoppo Jonathan Danielson, seguito dagli altri, quelli che dovevano proteggermi. E tutti correvano con aria molto virile ed eroica. Io mi sono fermata e sono rimasta a guardare. La corda che avevo neutralizzato era ancora là dov’era caduta, e il Titanico la stava esaminando, stupito, perché certo non capiva come la sua corda avesse smesso improvvisamente di funzionare. I miei eroi pensavano certo di non avere niente da temere. Il Titanico non aveva altre corde, e si era mai visto un Titanico afferrare uomini senza corde? I tentacoli servono solo per lavori di fino. Ma io li guardai, e vidi che erano della lunghezza e del colore sbagliati.»

Eric rammentò quello che gli aveva detto Walter l’Armaiolo.

«Corti e rossastri?»

«Esatto. Ma sai che sei istruito, per essere uno dei cunicoli di superficie?»

«Ecco» disse Eric a disagio, «ho girato parecchio e so tenere le orecchie e gli occhi aperti. Però, so che tentacoli corti e rossi appartengono ai Titanici che scappano quando vedono un uomo.»