Van Atta rispose sorridendo in modo furtivo e compiaciuto. — Ciao, Silver: come vanno le cose?
— Dopo questo ci resta un solo tubo da piantare. Avremo finito prima del cambio di turno — gli comunicò Silver.
— Bene, bene — disse gioviale Van Atta. — Ah, cerca di ricordare di metterti a testa in su quando parli con un terricolo, zuccherino.
Rapidamente, Silver si capovolse per mettersi nella stessa posizione di Van Atta. Dal momento che la stanza era cilindrica, «a testa in su» era una direzione puramente soggettiva indicata da Van Atta, rilevò seccato Leo. Dove aveva già incontrato quell’uomo?
— Bene, continuate pure, ragazze. — E Van Atta si incamminò seguito da Leo e da Tony che lanciava occhiate nostalgiche alle sue spalle.
Andy aveva di nuovo rivolto la propria attenzione alla madre, e le sue manine decise premevano sulla maglietta, sulla quale, in una sorta di reazione automatica, cominciarono a comparire alcune macchie scure. Sembrava che questa fosse una funzione della vecchia biologia che la Compagnia non aveva alterato. Dopo tutto, i dispensatori di latte erano certo idealmente preadattati alla vita in caduta libera, e persino i pannolini, per quanto ne sapeva Leo, avevano avuto una storia eroica agli albori del volo spaziale.
Quella considerazione divertita durò pochi istanti. Seguì Van Atta, riflettendo in silenzio: non era inquieto, si rassicurò, ma si riservava di emettere un giudizio e, nel frattempo, tenere la bocca chiusa non gli avrebbe impedito di raccogliere dati.
Si fermarono davanti all’ufficio di Van Atta, e questi accese le luci e l’impianto dell’aria appena entrarono. Dall’odore di chiuso, Leo arguì che l’ufficio non doveva venire usato molto spesso: probabilmente, il funzionario passava la maggior parte del proprio tempo molto più comodamente sul pianeta. Un grande oblò incorniciava una splendida vista del pianeta Rodeo.
— Ho fatto un po’ di strada dall’ultima volta che ci siamo visti — disse Van Atta incontrando il suo sguardo. L’atmosfera lungo il bordo superiore di Rodeo, osservata da quella particolare angolazione, produceva degli spettacolari effetti prismatici di luce. — In molti sensi. E non mi dispiace restituire il favore. Ritengo che chi arrivi in cima abbia il dovere di ricordarsi come ci è arrivato. Noblesse oblige e tutto il resto. — Il leggero inarcarsi delle sopracciaglia invitò Leo ad unirsi a quelle soddisfatte autocongratulazioni.
Ricordarsi, appunto. Il completo vuoto di memoria di Leo stava diventando sgradevolmente imbarazzante. Sorrise e approfittò del fatto che Van Atta fosse occupato ad attivare la consolle di comunicazione della propria scrivania, per voltarsi e compiere un educato e tranquillo giro della stanza come se ne stesse esaminando il contenuto.
Una piccola targa sulla parete che recava inciso un allegro motto attirò la sua attenzione. Il sesto giorno Dio si accorse che non poteva fare tutto da solo e così creò gli INGEGNERI. Leo sbuffò, solo vagamente divertito.
— Piace anche a me — disse Van Atta, che aveva sollevato la testa dalla scrivania per vedere la causa di quella risatina. — Me lo ha dato la mia ex-moglie. È praticamente l’unica cosa che quella avida puttana non si è ripresa quando ci siamo separati.
— Lei era un… — cominciò Leo e poi si interruppe mentre stava per pronunciare la parola ingegnere, perché finalmente aveva ricordato; anzi, si chiese come avesse fatto a dimenticarsene. Leo aveva conosciuto Van Atta quando era un ingegnere di grado inferiore al suo e non ancora un funzionario superiore. Dunque, questo viscido intrallazzatore era lo stesso idiota che lui aveva spedito a calci in amministrazione solo per toglierselo dai piedi al tempo del progetto Stazione Morita, dieci, forse dodici anni prima? Il piccolo Brucie. Ah, sì. Oh, per la miseria…
Dalla consolle sbucarono un paio di dischi che Van Atta ritirò. — Lei mi ha dato la spinta giusta. Ho sempre pensato che dovesse essere una grossa soddisfazione vedere uno dei propri vecchi studenti, per addestrare il quale si è speso tanto tempo, arrivare così in alto.
Van Atta aveva solo cinque anni meno di lui. Leo si sentì profondamente irritato: non era un maestro novantenne in pensione, maledizione. Era un ingegnere, che lavorava e non aveva paura di sporcarsi le mani, se necessario. Le sue capacità tecniche, governate da una coscienziosità inflessibile, erano davvero invidiabili e il suo curriculum di sicurezza lo attestava… Con un sospiro, represse la rabbia. Non era forse sempre così? Aveva visto dozzine di subordinati salire di grado, e spesso erano uomini che lui stesso aveva addestrato. Già, e si poteva star certi che uno come Van Atta lo avrebbe fatto sembrare una debolezza e non un punto di orgoglio.
Van Atta gli lanciò i dischetti attraverso la stanza. — Questi sono il suo ruolino e il programma del corso di studi. Venga, le mostrerò alcune delle apparecchiature con cui lavorerà. La GalacTech ha in ballo due progetti per i quali pensa di impiegare questi quad del Progetto Cay.
— Quad?
— Il soprannome ufficiale.
— Non è invece un… peggiorativo?
Van Atta lo fissò, sbuffando. — No. L’unico nome che non si usa mai apertamente nel definirli è «mutanti», dopo il clima di paranoia che si che si è creato a causa dell’ultimo fiasco del progetto militare di clonazione di Nuovo Brasilian. Se non fosse stato per le isteriche obiezioni di carattere legale sulla manipolazione dei geni umani, tutto questo progetto avrebbe potuto venir attuato molto più comodamente in orbita intorno alla Terra. Dicevamo dei due progetti: uno riguarda il montaggio di navi con propulsione a balzo in orbita intorno a Orient IV e l’altro la costruzione di una stazione spaziale di trasferimento in prossimità di un punto di connessione oltre Tau Ceti in un luogo dimenticato da Dio chiamato Stazione Kline: lavoro deprimente, sistema privo di pianeti abitabili, con il sole ridotto ad un tizzone, ma nello spazio locale vi sono non meno di sei punti di accesso ad altrettanti corridoi spaziotemporali. Potenzialmente molto redditizio. Gran lavoro di saldatura nelle più difficili condizioni di assenza di peso…
L’impeto di rabbia di Leo venne dissipato dall’interesse. Era sempre stato il lavoro in quanto tale e non lo stipendio e le gratifiche a mantenere vivo il suo entusiasmo. Cercare di ottenere i privilegi del dirigente significava solo essere relegato a terra. Seguì Van Atta fuori dall’ufficio, ritornando nel corridoio dove Tony attendeva paziente con il suo bagaglio.
— Immagino che sia stato lo sviluppo dei replicatori uterini a renderlo possibile — disse Van Atta mentre Leo riponeva le sue cose nell’alloggio. La stanza era ben più di un semplice cubicolo per dormire e comprendeva anche un bagno privato, una consolle per le comunicazioni e un’imbracatura dall’aspetto molto confortevole: niente mal di schiena mattutini, qui, pensò Leo soddisfatto. I mal di testa erano un altro problema.
— Ho sentito qualche accenno a queste cose — rispose. — Un’altra invenzione della Colonia Beta, vero?
Van Atta annuì. — I mondi esterni si stanno facendo troppo intraprendenti. La Terra rischia di perdere la supremazia, se non si mette al passo.
Fin troppo vero, pensò Leo. Anche se la storia delle innovazioni induceva a credere che si trattasse di uno schema inevitabile. Le amministrazioni che avevano fatto enormi investimenti di capitali in un determinato sistema, naturalmente non gradivano rimetterci e così i nuovi venuti si facevano avanti con forza, causando grande frustrazione negli ingegneri più fedeli… — Pensavo che l’uso dei replicatori uterini fosse rigorosamente ristretto ai casi di emergenza ginecologica.