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— Quella è terraferma? — chiese Linda indicando una spessa striscia di nubi che avviluppavano l'orizzonte.

Sollevando lo sguardo dal piano di volo, Kinsman disse: — Costa del Sud America. Cile.

— C'è un'altra stazione, là.

— È una stazione della NASA. Non fa parte della nostra re­te. Noi usiamo solo le stazioni dell'Aeronautica.

— Come mai?

Il viso di lui si incupì. — Murdock gioca ai soldatini. Questa dovrebbe essere una operazione strettamente militare. Nessuna guerra, per carità. Ma ci comportiamo come se non ci fossero stazioni civili qui intorno in grado di aiutarci. La solita musica «un-dué, avanti march».

Lei rise. — Non sei d'accordo con il colonnello?

— C'è solo una cosa che lui recentemente ha fatto e con cui sono completamente d'accordo.

— E sarebbe?

— Averti portato quassù.

Il sorriso rimase, ma gli occhi si distolsero da lui. — Adesso parli come un soldato anche tu.

— Non come ufficiale e gentiluomo?

Lei lo guardò dritto in faccia. — Cambiamo argomento.

Kinsman scosse le spalle. — D'accordo. Certo. Tu sei qui per scrivere una storia. Murdock vuole che l'Aeronautica abbia la stessa pubblicità di cui gode la NASA. E il Pentagono vuole di­mostrare al mondo che non abbiamo nessuna arma a bordo. Sia­mo militari, d'accordo, ma militari coscienziosi.

— E tu — chiese Linda in tono serio. — Tu che cosa vuoi? Come mai un capitano dell'Aeronautica è entrato a far parte dei cadetti spaziali?

— Nel modo in cui succedono sempre queste cose… sei nel posto giusto al momento giusto. Mi dissero che sarei diventato un astronauta. Faceva tutto parte del lavoro… fino al mio primo volo orbitale. Ora è un particolare modo di vita.

— Davvero? Come mai?

Sogghignando, lui rispose: — Aspetta di essere uscita. Lo scoprirai.

Jill ritornò nella cabina principale in perfetto orario e fu il turno di Kinsman di andare a dormire. Raramente aveva delle difficoltà a prendere sonno sulla Terra, e certo mai quando si trovava in orbita. Ma mentre si sistemava le cinghie a pressione ai polsi e alle gambe, si domandava quali sarebbero state le rea­zioni di Linda nel trovarsi all'esterno. I medici insistevano molto su queste cinghie a pressione, sostenendo che stimolavano le fun­zioni del sistema cardiovascolare durante il sonno.

Una maledetta seccatura,borbottò tra sé Kinsman. Un'idea di qualche medico di terra per farsi un nome.

Finalmente si infilò in quell'amaca a forma di bozzolo e chiu­se gli occhi. Poteva sentire la delicata pressione delle cinghie. Il suo ultimo pensiero cosciente fu la fastidiosa preoccupazione che Linda sarebbe stata terrorizzata dalla AEV.

Quando si svegliò e toccò a Linda infilarsi nell'amaca, parlò della cosa con Jill.

— Penso che andrà tutto bene, Chet. Non farti scoraggiare da quei primi minuti.

— Non so; ci sono solo due tipi di reazione possibili quassù: o ti piace o provi una fott… maledetta paura. E non si può finge­re. Se si fa prendere dal panico quando siamo fuori…

— Non lo farà — disse Jill con fermezza. — E comunque tu sarai là ad aiutarla. Le ho detto che non potrà uscire fino a quando tu non avrai finito il lavoro di collegamento. Voleva scattare delle fotografie mentre sei al lavoro, ma si accontenterà di alcune pose.

Kinsman annuì. Ma la preoccupazione rimase. Chissà se l'in­fermiera di Calder aveva paura di volare?

Stava infilandosi gli stivali, con il piede libero ancorato ad un'apparecchiatura per evitare di galleggiare, quando Linda ter­minò il suo turno di riposo.

— Pronta per il giretto intorno all'isolato? — le chiese. Lei sorrise e fece cenno di sì senza alcuna esitazione.

— Non vedo l'ora. Posso scattare qualche foto mentre ti infi­li la tuta?

Forse sarà proprio okay.

Alla fine lui fu chiuso nella tuta a pressione. Linda e Jill si ri­trassero mentre lui apriva il portello stagno. Era inserito nel pavi­mento all'estremità della cabina dove era attraccato il velivolo spaziale. La camera stagna aveva le dimensioni di una bara. Con l'aiuto di Jill vi si infilò e chiuse il portello. Per muoversi Kin­sman dovette piegarsi in due. Fece un ultimo controllo alla tuta e poi pompò l'aria fuori dal compartimento. Adesso era pronto ad aprire il portello esterno.

Si trovava sotto i suoi piedi, ma quando si aprì ed apparvero le stelle, l'orientamento di Kinsman in assenza di peso parve ca­povolgersi, come in presenza di un'illusione ottica ed ebbe l'im­pressione di essere girato a testa in giù a guardare fuori.

— Esco ora — disse nel microfono del casco.

— Okay — rispose la voce di Jill.

Con cautela si infilò nel portello aperto e una volta fuori af­ferrò con una mano guantata il bordo dell'apertura, come un nuotatore si tiene per un attimo alla ringhiera prima di immerger­si in acque profonde. Fuori. Ruotando lentamente su se stesso, vide la bellezza immensa della Terra, di una luminosità abba­gliante anche attraverso il visore oscurato. Oltre l'orizzonte in­curvato vi era l'oscurità dell'infinito, con le stelle splendenti che lo fissavano con imperturbabile solennità.

Ora era solo. Un piccolo universo personale, indipendente da tutto e da tutti. Poteva tagliare il cordone ombelicale di sopravvi­venza che lo univa al laboratorio e galleggiare libero per sempre. Ed essere morto in due minuti. Eh, questo è il guaio!

Invece, slacciò la minuscola pistola a gas che aveva sul petto e, trascinandosi dietro il cordone ombelicale, si avviò verso il mo­dulo del generatore, situato a poca distanza dal laboratorio: un tozzo cono tronco, di lunghezza minore ma più grande del labo­ratorio stesso, con un lato vividamente illuminato dalla luce del sole, mentre il resto era immerso nella luce più tenue riflessa dal lato diurno della Terra sottostante.

Il lavoro di Kinsman consisteva nell'ispezionare il generatore, controllare gli strumenti, e infine collegarlo al sistema elettrico del laboratorio. Non c'era bisogno di congiungere materialmente le due parti, ma solo di collegare un paio di cavi elettrici. Tutto quello che serviva per il lavoro, attrezzi, cavi, strumenti di con­trollo, erano già all'interno del generatore, in attesa di essere usati.

Sulla Terra sarebbe stata un'operazione semplice. A gravità zero, era piuttosto complicata. Il più piccolo movimento spinge­va il corpo alla deriva. Bisognava lottare contro i movimenti ai quali si era abituati; fare uno sforzo per mantenersi sempre nella giusta posizione. Era facile stancarsi a gravità zero.

Kinsman accettava tutto questo quasi inconsciamente. Lavorò lentamente, metodicamente, facendo il minor numero possibile di movimenti, lasciandosi andare leggermente alla deriva finché un movimento più o meno naturale del corpo lo risospingeva nel­la direzione opposta. Cavalca le onde, lentamente e con calma. Il suo lavoro aveva un ritmo, il ritmo naturale, simile a un sogno, dell'assenza di peso.

I suoi auricolari rimasero silenziosi e lui taceva. Gli unici ru­mori erano il mormorio del ventilatore della tuta e il suo respiro regolare. Era concentrato solo sul suo lavoro.

Alla fine si spinse con i razzi in direzione del laboratorio trai­nando un paio di spessi cavi. Trovò i connettori nella parete late­rale del laboratorio e inserì le spine. Vi dichiaro laboratorio e gruppo elettrogeno. Ispezionò le luci di controllo lungo i connet­tori. Tutto verde. Possiate voi generare molti kilowatt.