Выбрать главу

Era un’astronave nera, che arrivava a tutta velocità. Ebbi appena il tempo di pensare che non era giusto, che non dovevano attaccarci fino agli ultimi giorni, e l’astronave ci arrivò sopra la testa.

9

Ci buttammo tutti al suolo, istintivamente, ma l’astronave non attaccò. Accese i razzi frenanti e scese, atterrando sui pattini. Poi si girò slittando e venne a fermarsi vicino al sito della costruzione.

Tutti avevano già capito, e se ne stavano lì intorno, vergognandosi, quando dall’astronave uscirono due figure chiuse negli scafandri.

Una voce ben nota gracchiò sulla frequenza generale. — Ognuno di voi ci ha visti arrivare, e non uno di voi ha fatto fuoco con il laser. Non sarebbe servito a niente, ma avrebbe almeno dimostrato un po’ di spirito combattivo. Avete a disposizione una settimana o meno prima che si faccia sul serio, e siccome il sergente e io saremo qui, io pretendo che dimostriate un po’ più di volontà di vivere. Facente funzione di sergente Potter.

— Qui, signore.

— Sceglimi dodici persone per caricare. Abbiamo portato cento piccole robosonde per allenarvi al tiro al bersaglio, in modo che abbiate almeno qualche possibilità di combattere quando arriverà un bersaglio vivo.

"Adesso muovetevi. Abbiamo solo trenta minuti, prima che l’astronave ritorni a Miami."

Io controllai, e in realtà rimase per una quarantina di minuti.

Avere lì il capitano e il sergente in realtà non cambiava di molto la situazione: eravamo egualmente abbandonati a noi stessi: quei due si limitavano a osservare.

Una volta sistemato il pavimento, bastò un giorno soltanto per completare il bunker. Era un rettangolo grigio, privo di aperture, a parte la bolla del vano stagno e quattro finestre. Sul tetto era montato un laser da un megawatt, girevole. L’operatore — non era possibile chiamarlo "cannoniere" — stava su un sediolo e stringeva con entrambe le mani gli interruttori del tipo detto "a uomo morto". Il laser non avrebbe sparato, finché lui avesse stretto uno degli interruttori. Se li avesse mollati, il laser si sarebbe puntato automaticamente su qualunque oggetto aereo in movimento e avrebbe sparato a volontà. All’intercettazione primaria e al puntamento provvedeva un’antenna alta un chilometro, montata accanto al bunker.

Era l’unico sistema che avesse qualche probabilità di funzionare, dato che l’orizzonte era così vicino e i riflessi umani erano così lenti. Non era possibile ricorrere all’automazione completa, perché in teoria potevano anche avvicinarsi astronavi amiche.

Il computer di puntamento poteva scegliere anche tra dodici bersagli che comparissero simultaneamente, sparando per primi a quelli più grossi. E li avrebbe centrati tutti e dodici nello spazio di mezzo secondo.

L’installazione era parzialmente protetta dal fuoco nemico a mezzo di un efficiente strato ablativo che copriva tutto, tranne l’operatore umano. Ma d’altra parte, quelli erano interruttori del tipo "a uomo morto". Un uomo solo, lassù, a vegliare sugli ottanta che stavano dentro. Nell’esercito sono bravissimi, con questo tipo di aritmetica.

Quando il bunker fu completato, una metà di noi rimase sempre lì dentro (ci sentivamo molto bersagli) e si faceva a turno a far funzionare il laser, mentre l’altra metà usciva per le manovre.

A quattro chilometri circa dalla base c’era un grosso "lago" di idrogeno ghiacciato; una delle nostre manovre più importanti consisteva nell’imparare a muoverci su quella roba pericolosissima.

Non era troppo difficile. Non potevi starci sopra in piedi, quindi dovevi sdraiarti sul ventre e slittare.

Se avevi qualcuno che ti dava la spinta iniziale, mettersi in moto non costituiva un problema. Altrimenti, dovevi brancicare con le mani e con i piedi, spingendoti con tutta la forza possibile, fino a quando cominciavi a muoverti, a piccoli balzi. Una volta messo in moto, continuavi ad andare fino a quando c’era ghiaccio. Potevi sterzare un po’ premendo forte mano e piede dalla parte giusta, ma in quel modo non ce la facevi a rallentare e a fermarti. Quindi la cosa migliore era non andare troppo forte e mettersi in modo che non fosse l’elmo a subire l’urto al momento dell’arresto.

Facemmo tutto quello che ci avevano fatto fare nell’emisfero di Miami: esercitazioni con le armi, demolizione, schemi d’attacco. Lanciammo anche le sonde verso il bunker, a intervalli irregolari. E così, dieci o quindici volte al giorno, gli operatori dovevano dimostrare la loro abilità lasciando andare le maniglie non appena si accendevano le luci che segnalavano il nemico in avvicinamento.

Feci anch’io un turno di quattro ore, come tutti gli altri. Ero nervoso, fino al primo "attacco", quando mi resi conto che in realtà era una cosa da niente. La luce si accese, io lasciai andare gli interruttori, il cannone si puntò, e quando la sonda fece capolino sopra l’orizzonte… zzt! Un bel tocco di colore, quel metallo fuso spruzzato a pioggia nello spazio. Per il resto, non era molto emozionante.

Quindi nessuno di noi era preoccupato per l’imminente "esercitazione finale", perché si pensava che fosse più o meno la stessa cosa.

Il tredicesimo giorno, Base Miami attaccò con due missili simultanei che saettarono da due punti opposti dell’orizzonte, alla velocità di circa quaranta chilometri al secondo. Il laser disintegrò il primo senza la minima difficoltà, ma il secondo arrivò a otto chilometri dal bunker, prima di venire centrato.

Noi stavamo tornando dalle manovre, ed eravamo a circa un chilometro dal bunker. Non avrei visto niente, se non avessi guardato proprio in quella direzione, al momento dell’attacco.

Il secondo missile grandinò direttamente sul bunker in una pioggia di frammenti fusi. Undici pezzi arrivarono a segno, e in base a quanto potemmo ricostruire in seguito, questo fu quanto accadde:

La prima a rimetterci la pelle fu Maejima, la tanto desiderata Maejima; era dentro al bunker, fu colpita alla schiena e alla testa e morì immediatamente. Con l’abbassarsi della pressione, l’unità ambiente scattò al massimo. Friedman stava proprio di fronte alla griglia del condizionatore d’aria, e venne scaraventato contro la parete opposta con tanta forza che perse i sensi: morì di decompressione, prima che gli altri potessero infilarlo nel suo scafandro.

Tutti gli altri riuscirono a muoversi barcollando in quella bufera e a infilarsi negli scafandri, ma quello di Garcia era stato bucato da una scheggia, e fu come se non lo avesse neppure messo.

Prima che noi arrivassimo, avevano spento l’unità ambiente e stavano già saldando le falle nelle pareti. Un uomo stava cercando di ricomporre la poltiglia irriconoscibile che era stata Maejima. Lo sentivo singhiozzare e vomitare. Garcia e Friedman li avevano già portati fuori, per seppellirli. Il capitano prese il comando della squadra riparazioni. Il sergente Cortez condusse in un angolo l’uomo che singhiozzava e tornò da solo a pulire i resti di Maejima. Non ordinò a nessuno di aiutarlo, e nessuno si offrì volontario.

10

A titolo di esercitazione finale, ci caricarono senza cerimonie a bordo di un’astronave — Earth’s Hope, la stessa che ci aveva portati a Caronte — e ci spedirono a Stargate a poco più di una gravità.

Il viaggio sembrò interminabile, circa sei mesi di tempo soggettivo, e anche molto noioso, ma non fu duro come quello che ci aveva portati a Caronte. Il capitano Stott ci fece ripassare oralmente l’addestramento, giorno per giorno, e quotidianamente facevamo esercizi vari, fino a ridurci come stracci.

Stargate 1 era come l’emisfero buio di Caronte, solo un po’ peggio. La base su Stargate 1 era più piccola di Base Miami, solo un poco più grande di quella che avevamo costruito sull’emisfero notturno, e dovemmo lavorare più di una settimana per aiutare ad ampliare la postazione. La squadra che era già lì fu molto contenta di vederci: specialmente le due donne, che avevano l’aria un po’ sovraffaticata.