"I due missili erano di un tipo il cui sistema di propulsione era già di per se tesso una bomba a tachioni tenuta a stento sotto controllo. Acceleravano a un ritmo costante di 100 gravità, e stavano viaggiando a velocità relativistica nel momento in cui la vicinanza della massa dell’astronave nemica li ha fatti esplodere.
"Non prevediamo ulteriori interferenze da parte di vascelli nemici. La nostra velocità, rispetto ad Aleph, sarà pari a zero tra altre cinque ore; allora cominceremo la traiettoria di ritorno, che richiederà ventisette giorni." Lamenti generali e imprecazioni avvilite. Tutti lo sapevamo già, naturalmente; ma non ci tenevamo a sentircelo ricordare.
E così, dopo un altro mese di ginnastica e di esercitazioni logistiche, a due gravità costanti, potemmo dare la prima occhiata al pianeta che stavamo per attaccare. Gli invasori venuti dallo spazio, sissignori.
Era una falce bianca, accecante, che ci aspettava a due unità astronomiche da Epsilon. Il comandante aveva identificato l’ubicazione della base dei nemici da cinquanta unità astronomiche di distanza; e ci eravamo avvicinati in un ampio arco, tenendo tra noi e loro la massa del pianeta. Questo non significava che ci stessimo avvicinando furtivamente, anzi, tutto il contrario, dato che i nemici lanciarono tre attacchi fallimentari: ma ci metteva in una posizione difensiva più forte. Fino a quando non fossimo dovuti scendere sulla superficie, cioè. Allora solo l’astronave e il suo equipaggio della Flotta Stellare sarebbero stati ragionevolmente al sicuro.
Poiché il pianeta ruotava piuttosto lentamente — una rotazione ogni dieci giorni e mezzo — un’orbita "stazionaria" per l’astronave doveva essere a 150.000 chilometri. Questo dava un senso di sicurezza all’equipaggio dell’astronave, con 9000 chilometri di roccia e 140.000 chilometri di spazio tra la Hope e i nemici. Ma questo comportava un secondo di divario nelle comunicazioni tra noi a terra e il calcolatore da combattimento dell’astronave.
Una persona aveva tutto il tempo di morire mentre quell’impulso di neutrini viaggiava in su e in giù.
I nostri ordini, che erano piuttosto vaghi, ci imponevano di attaccare la base e di impadronircene, cercando di danneggiare al minimo l’equipaggiamento nemico. Dovevamo catturare almeno un nemico vivo. Tuttavia, in nessun caso dovevamo lasciarci prendere vivi. E la decisione non veniva affidata a noi: un impulso speciale del computer da combattimento, e il pezzettino di plutonio che avevi nel generatore di corrente si sarebbe scisso con tutta la sua efficienza dello 0,01%, e di te non sarebbe rimasto altro che del plasma caldissimo in rapida espansione.
Ci legarono con le cinture di sicurezza a bordo di sei ricognitori (un plotone di dodici per ciascuno) e ci lanciarono dalla Earth’s Hope a otto gravità. Ogni ricognitore doveva seguire una rotta accuramente randomizzata per arrivare al punto del rendez-vous, a 108 chilometri dalla base. Contemporaneamente vennero lanciate altre quattordici sonde automatiche, per confondere il sistema antiastronavi del nemico.
L’atterraggio andò quasi alla perfezione. Un solo ricognitore subì lievi danni (per un colpo esploso a poca distanza, parte del materiale ablativo su un lato dello scafo si disperse bollendo: comunque ce la fece ad atterrare e a tornare indietro, mantenendosi a bassa velocità finché rimase nell’atmosfera).
Noi zigzagammo e guizzammo e arrivammo per primi al punto del rendez-vous. C’era solo una piccola difficoltà: il punto si trovava sotto quattro chilometri d’acqua.
Mi pareva quasi di sentire il computer che, a 140.000 chilometri di distanza, digrignava i suoi congegni pensanti, rimuginando su quel nuovo dato. Noi procedemmo esattamente come se stessimo atterrando sul terreno solido: razzi frenanti, caduta, fuori i pattini, urto contro l’acqua, sobbalzo, e poi giù.
Forse la logica consigliava di continuare, e atterrare sul fondo, dato che il ricognitore aveva una linea aerodinamica, e dopotutto l’acqua è solo un fluido come tanti altri; ma lo scafo non era abbastanza resistente per reggere alla pressione di una colonna d’acqua di quattro chilometri. Con noi, sul ricognitore, c’era il sergente Cortez.
— Sergente, dica a quel computer di fare qualcosa! Altrimenti finiremo…
— Oh, piantala, Mandella. Abbi fiducia nel Signore. — La parola "Signore" in bocca a Cortez aveva sempre l’iniziale minuscola.
Si udì una specie di sospiro gorgogliante, e poi un altro, e poi un lieve aumento della pressione contro la mia schiena indicò che il ricognitore stava risalendo. — Sacche di galleggiamento? — Cortez non si degnò di rispondere, o forse non lo sapeva neanche lui.
Era proprio così. Risalimmo fino a dieci o quindici metri dalla superficie e ci fermammo lì sospesi. Oltre l’oblò potevo vedere la superficie, lassù, che scintillava come uno specchio d’argento martellato. Mi chiesi che cosa si provasse a essere un pesce e ad avere un tetto ben definito sopra il mondo.
Vidi un altro ricognitore che si tuffava. Causò una grande nube di bolle e di perturbazioni e poi precipitò, di coda, per un breve tratto, prima che grosse sacche si gonfiassero di colpo sotto le ali a delta. Poi risalì ondeggiando più o meno fino al nostro livello, e restò lì.
— Qui è il capitano Stott. Ascoltate attentamente. C’è una spiaggia, a circa ventotto chilometri dalla vostra posizione attuale, nella direzione in cui si trova il nemico. Procederete fino alla spiaggia con i ricognitori, e di lì provvederete a organizzare l’attacco contro la posizione taurana. — Quello era un miglioramento spettacoloso avremmo dovuto percorrere a piedi solo ottanta chilometri.
Facemmo sgonfiare le sacche, ci sparammo alla superficie e la sorvolammo in formazione spiegata, a bassa quota, in direzione della spiaggia. Impiegammo parecchi minuti. Mentre il ricognitore si fermava scricchiolando, sentii le pompe che ronzavano, per rendere la pressione interna della cabina eguale a quella atmosferica esterna. Prima ancora che il ricognitore avesse smesso di muoversi, il portello d’uscita accanto alla mia cuccetta si aprì. Rotolai fuori sull’ala dell’apparecchio e balzai al suolo. Dieci secondi per trovare un riparo… corsi sulla ghiaia verso il più vicino "filare d’alberi", un groviglio contorto di arbusti alti e sparsi, di un verde azzurrognolo. Mi buttai in mezzo ai rovi e mi voltai a guardare i ricognitori che ripartivano. Le sonde automatiche che erano rimaste si innalzarono lentamente fino a una quota di un centinaio di metri, e poi si dispersero in tutte le direzioni, con un rombo da scardinare le ossa. I veri ricognitori tornarono a scivolare lentamente sott’acqua. Magari era una buona idea.
Non era un mondo terribilmente attraente, ma certo sarebbe stato più facile muoversi lì che nell’incubo criogenico in cui ci avevano addestrati. Il cielo era un fulgore uniforme, argenteo e opaco, che si fondeva completamente con la foschia sull’oceano, al punto che era impossibile indicare dove finiva l’acqua e incominciava l’aria. Onde minute lambivano la spiaggia di ghiaia nera, troppo lentamente e graziosamente in quella gravità che era solo tre quarti di quella terrestre. Anche da cinquanta metri di distanza, l’acciottolio di miliardi di sassi fatti rotolare dalla risacca risuonava foltissimo nelle mie orecchie.
La temperatura dell’aria era 79 gradi centigradi: non era abbastanza caldo per far bollire il mare, sebbene la pressione atmosferica fosse inferiore a quella terrestre. Spirali di vapore salivano rapidamente verso il cielo dalla battigia dove acqua e terra si congiungevano. Mi chiesi come avrebbe fatto a sopravvivere un uomo, lì, senza lo scafandro. L’avrebbe ucciso prima il calore oppure il basso tenore d’ossigeno (la pressione parziale era un ottavo di quella normale della Terra)? Oppure lì c’era qualche microrganismo mortale che li avrebbe battuti entrambi sul tempo?