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— Qui è Cortez. Muovetevi tutti, raccoglietevi attorno a me. — Era ritto sulla spiaggia, un po’ alla mia sinistra, e agitava in cerchio la mano sopra la testa. Mi avviai verso di lui, passando tra gli arbusti. Erano fragili, inconsistenti, e sembravano paradossalmente secchi in quell’aria carica di vapore. Non avrebbero offerto certamente un buon riparo.

— Avanzeremo in direzione 0,05 radianti a est di nord. Il Plotone Uno all’avanguardia. Due e Tre seguono a venti metri di distanza, a sinistra e a destra. Il Sette, il plotone del comando, al centro, venti metri dietro il Due e il Tre. Il Cinque e il Sei alla retroguardia, in un fianco chiuso, semicircolare. Tutto chiaro? — Sicuro, eravamo capaci di seguire quella manovra a "punta di freccia" anche da addormentati. — Okay, muoviamoci.

Io ero nel Plotone Sette, il "gruppo del comando". Il capitano Stott mi ci aveva messo non perché mi spettasse d’impartire qualche comando, ma perché avevo studiato fisica.

Il gruppo del comando era, ipoteticamente, il posto più sicuro, protetto com’era dagli altri sei plotoni; venivi assegnato a quello perché, per ragioni tattiche, era meglio che sopravvivessi un po’ più a lungo degli altri. C’era Cortez, per dare gli ordini. C’era Chavez, per rimediare ai difetti di funzionamento degli scafandri. C’era il medico anziano, Doc Wilson (l’unico medico che avesse effettivamente una laurea in medicina), e c’era anche Theodopolis, il radiotecnico: era il nostro legame col capitano, che aveva deciso di restare in orbita.

Poi c’eravamo noialtri, che eravamo stati assegnati al gruppo del comando grazie a specializzazioni o attitudini che normalmente non sarebbero state considerate di indole "tattica". Di fronte a un nemico completamente ignoto, non si poteva mai sapere cosa potesse rivelarsi importante. Perciò io ero lì perché, in tutta la compagnia, ero quello che era arrivato più vicino alla laurea in fisica. La Rogers rappresentava la biologia. Tate la chimica. La Ho era in grado di ottenere un punteggio perfetto nei test Rhine di percezione extrasensoriale, in qualunque momento. Bohrs era un poliglotta, capace di parlare ventun lingue correntemente, idiomaticamente. La facoltà eccezionale di Petrov stava nel fatto che, secondo gli esami, non aveva nella sua psiche una sola molecola di xenofobia. Keating era un abile acrobata. Debby Hollister — detta Lucky, "fortunata" — possedeva una straordinaria capacità di far danaro, e anch’ella aveva un potenziale Rhine costantemente molto elevato.

12

Quando ci mettemmo in marcia, usammo la combinazione mimetica "giungla" sui nostri scafandri. Ma quella che passava per una giungla, in quei tropici anemici, era troppo rada: e noi sembravamo una banda di sgargianti arlecchini che sfilassero in mezzo a un bosco. Cortez ci ordinò di passare al nero, ma neanche quello andava bene, perché la luce di Epsilon arrivava in modo uniforme da tutte le parti del cielo, e non c’erano ombre, eccettuate le nostre. Finalmente optammo per la mimetizzazione del tipo deserto, color duna.

Il paesaggio cambiò gradualmente mentre marciavamo verso nord, allontanandoci dal mare. Gli steli spinosi — immagino che potrei chiamarli alberi — divennero meno numerosi, ma più grossi e meno fragili; alla base di ognuno di essi c’era una massa aggrovigliata di viticci dello stesso colore verdazzurro, che si espandeva in un cono appiattito del diametro d’una decina di metri. Sulla cima di ogni albero c’era un delicato fiore verde, grande quando la testa di un uomo.

A cinquanta chilometri dal mare, cominciò a spuntare l’erba. Sembrava che rispettasse i diritti di proprietà degli alberi, e lasciava una fascia di terreno spoglio intorno ad ogni cono di viticci. Sul limitare di una di quelle radure, l’erba cresceva sotto forma di timida stoppia verdazzurra, e poi, via via che si allontanava dall’albero, diventava più folta e più alta, fino a quando, in certi punti, ci arrivava alla spalla, là dove la distanza tra un albero e l’altro era eccezionalmente ampia. L’erba aveva una sfumatura più chiara e più verde degli alberi e dei viticci. Cambiammo il colore degli scafandri, passando al verde vivo che avevamo usato su Caronte per ottenere il massimo della visibilità. Finché ci tenevamo in mezzo all’erba più fitta, eravamo discretamente mimetizzati.

Coprivamo oltre venti chilometri al giorno, euforici compravamo dopo avere trascorso dei mesi a due gravità. Fino al secondo giorno, l’unico esemplare della fauna che vedemmo fu una specie di verme nero, grosso un dito, con centinaia di zampe ciliate che sembravano le setole d’uno spazzolino. La Rogers disse che ovviamente dovevano esserci in giro animali più grossi, altrimenti gli alberi non avrebbero avuto motivo di avere le spine. Perciò stavamo doppiamente in guardia, aspettandoci guai da parte tanto dei taurani quanto degli "animali più grossi" non meglio identificati.

Il Secondo plotone, quello della Potter, era all’avanguardia: la frequenza generale era riservata a lei, poiché era probabile che sarebbe stato il suo gruppo ad avvistare per primo gli eventuali guai.

— Sergente, qui Potter — sentimmo tutti. — Movimento più avanti.

— Buttatevi a terra, allora!

— Già fatto. Non credo che ci vedano.

— Primo plotone, portarsi alla destra del Secondo. State giù. Quarto, portarsi a sinistra. Avvertitemi, quando sarete in posizione. Sesto plotone, restare indietro e vigilare la retroguardia. Quinto e Terzo, avvicinarsi al gruppo del comando.

Due dozzine di persone uscirono frusciando dall’erba per unirsi a noi. Cortez doveva aver ricevuto conferma dal Quarto plotone.

— Bene. E voi del Primo?… Okay, benissimo. Quanti sono?

— Noi ne vediamo otto. — La voce della Potter.

— Bene. Quando do l’ordine, aprite il fuoco. Sparate per uccidere.

Sergente… sono solo animali.

Potter… Se hai sempre saputo che aspetto ha un taurano, avresti dovuto dircelo. Sparare per uccidere.

— Ma ci serve…

— Ci serve un prigioniero, ma non possiamo scortarlo per quaranta chilometri fino alla sua base e tenerlo d’occhio mentre combattiamo. Chiaro?

— Sì, sergente.

— Okay. Voi del Settimo, cervelloni e tipi strambi; andremo avanti a guardare. Quinto e Terzo, accompagnateci per proteggerci.

Strisciammo tra l’erba alta un metro, e arrivammo dove quelli del Secondo plotone si erano sparsi in fila, pronti a sparare.

— Io non vedo niente — disse Cortez.

— Avanti, un po’ sulla sinistra. Verdiscuri.

Erano solo di pochissimo più scuri dell’erba. Ma quando avevi visto il primo, riuscivi a vederli tutti: si muovevano lentamente, una trentina di metri più avanti.

— Fuoco! — Cortez sparò per primo. Poi dodici scie cremisi schizzarono e l’erba avvizzì, annerì, scomparve, e gli esseri sobbalzarono convulsamente e morirono mentre cercavano di disperdersi.

— Cessate il fuoco, cessate il fuoco! — Cortez si alzò. — Abbiamo bisogno che ci resti qualcosa… Secondo plotone, seguitemi. Avanzò a grandi passi verso i corpi fumanti, con il dito-laser puntato diritto davanti a sé, simile a un’oscena bacchetta da rabdomante che lo attirasse verso quella carneficina… Mi sentii stringere la gola, e capii che tutti i sadici nastri d’addestramento, tutte le morti orribili durante le esercitazioni non erano bastati a prepararmi a quella improvvisa realtà… che anch’io avevo una bacchetta magica, e potevo puntarla verso un essere vivente e trasformarlo in un pezzo fumante di carne semicotta; io non ero un soldato di professione, non avevo mai voluto esserlo, avrei preferito non doverlo essere mai…