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La Rogers e io ci sedemmo sull’estremità della longarina, e io tirai fuori il mio portaerba. Avevo un mucchio di sigarette d’erba, ma ci avevano ordinato di non fumarle prima del rancio serale. L’unico tabacco che avevo era un mozzicone di sigaro lungo otto centimetri. Lo accesi sul fianco della scatola: non era poi troppo cattivo, dopo le prime due o tre boccate. La Rogers ne tirò una boccata anche lei, tanto per mostrarsi socievole, ma fece una smorfia e me lo restituì.

— Andavi a scuola quando ti hanno arruolato? — mi chiese.

— Già. Avevo appena preso un diploma in fisica. Volevo prendere l’abilitazione all’insegnamento.

Lei piegò la testa, pensierosa. — Io studiavo biologia…

— Calza col tipo. — Schivai una manciata di fanghiglia. — Fin dove sei arrivata?

— Sei anni. Maturità scientifica e poi specializzazione tecnica. — Fece strisciare uno stivale per terra, rivoltando una palata di fango e di neve impoltigliata che aveva la consistenza di latte condensato semigelato. — Perché cazzo mai doveva capitare una cosa simile?

Io alzai le spalle. Quella frase non aveva bisogno di una risposta, men che meno della spiegazione che continuava a darci la FENU: l’élite intellettuale e fisica del pianeta che partiva per difendere l’umanità dalla minaccia dei taurani. Merda di soia. Era solo un grosso esperimento, per vedere se riuscivamo a indurre i taurani a impegnarsi in qualche azione al suolo.

"Benone" suonò il fischietto con due minuti d’anticipo, come del resto era da prevedere, ma la Rogers, io e gli altri due addetti alla longarina riuscimmo a starcene seduti ancora per un minuto, mentre le squadre collante e pavimentazione finivano di coprire quella che avevamo già piazzata. Si gelava in fretta, a starsene lì seduti con le tute spente, ma restammo inattivi per una questione di principio.

In realtà non aveva nessun senso, farci addestrare al freddo. Era la tipica logica sfasata dell’esercito. Sicuro, ci sarebbe stato freddo, dove ci mandavano, ma non un freddo da neve o da ghiaccio. Quasi per definizione, un pianeta portale restava sempre a un grado o due dallo zero assoluto — dato che le collapsar non irradiano — e se senti un brivido di gelo vuol dire che sei un uomo morto.

Dodici anni prima, quando io avevo dieci anni, avevano scoperto il balzo tra le collapsar. Lancia un oggetto contro una collapsar a velocità sufficiente, e l’oggetto ti schizza fuori in qualche altra parte della galassia. Non c’era voluto molto tempo per calcolare la formula che prediceva dove sarebbe uscito: l’oggetto viaggia lungo la stessa "linea" (che in realtà è una linea geodetica einsteiniana) che avrebbe seguito se non ci fosse stata di mezzo la collapsar, fino a quando non arriva a un altro campo di collapsar, e allora ricompare, respinto con la stessa velocità con cui si era avvicinato al primo campo. Tempo impiegato nel viaggio tra le due collapsar… esattamente zero.

Questo aveva comportato un sacco di lavoro per i fisici matematici, che erano stati costretti a ridefinire la simultaneità, e poi a fare a pezzettini la relatività generale e a ricostruirla daccapo. E aveva reso felici gli uomini politici, perché adesso potevano spedire a Fomalhaut un’astronave carica di coloni, spendendo meno di quanto costasse una volta spedire un gruppetto di uomini sulla Luna. C’era una quantità di gente che gli uomini politici preferivano vedere su Fomalhaut, a realizzare una gloriosa avventura, anziché a fomentare guai in patria.

Le astronavi erano sempre accompagnate da una sonda automatizzata che le seguiva a una distanza di qualche milione di chilometri. Sapevamo tutto dei pianeti portale, pezzettini di detriti cosmici che turbinavano intorno alle collapsar: la funzione della sonda consisteva nel ritornare indietro a informarci, nel caso che un’astronave fosse andata a sbattere contro un pianeta portale a 0,999 della velocità della luce.

Una catastrofe di questo genere non era mai capitata, ma un brutto giorno una sonda era ritornata indietro da sola, zoppicando. I dati erano stati analizzati, ed era saltato fuori che l’astronave dei coloni era stata inseguita da un altro veicolo spaziale ed era stata distrutta. Il fattaccio era successo dalle parti di Aldebaran, nella costellazione del Toro, latino Taurus, ma poiché "Aldebaraniani" era un po’ lungo da pronunciare, i nemici erano stati battezzati "Taurani".

A partire da quella volta, le astronavi dei coloni si erano messe in viaggio protette da una scorta armata. Spesso la scorta annata si metteva in viaggio da sola, e alla fine il Gruppo Colonizzazione venne abbreviato in FENU, Forza Esplorativa delle Nazioni Unite. Con l’accento su Forza.

Poi qualche genio dell’Assemblea Generale aveva deciso che bisognava piazzare un’armata di fanti e fare la guardia ai pianeti portale delle collapsar più vicine. E questo portò alla Legge per la Coscrizione Elitaria del 1996, e alla creazione dell’esercito più elitario in tutta la storia della guerra.

E perciò adesso noi eravamo lì, cinquanta uomini e cinquanta donne, con quoziente d’intelligenza superiore a 150, e fisico dotato di salute e di forza fuori del comune, a trascinarci elitariamente nel fango e nella neve impoltigliata del Missouri centrale, a meditare sull’utilità della nostra bravura nel costruire ponti su mondi dove l’unico fluido che si può trovare è qualche pozzanghera stazionaria di elio liquido.

3

Circa un mese dopo, partimmo per l’addestramento finale: le manovre sul pianeta Caronte. Sebbene si stesse avvicinando al perielio, era comunque lontano dal Sole più del doppio di Plutone.

L’astronave tradotta era un "vagone bestiame" convertito, costruito in origine per trasportare duecento coloni, piante e animali vari. Ma non pensate che ci fosse molto spazio, solo per il fatto che noi eravamo soltanto cento. Quasi tutto il posto in più era occupato da una massa di reazione extra, artiglieria e servizi logistici.

Il viaggio richiese in tutto tre settimane: metà ad accelerare a due gravità, metà a decelerare. La nostra velocità massima, quando intersecammo rombando l’orbita di Plutone, si aggirava intorno a un ventesimo della velocità della luce… non abbastanza perché la relatività infilasse tra noi la sua testolina complicata.

Tre settimane passate portandosi addosso un peso doppio del normale… non è precisamente un picnic. Facevamo qualche esercizio con molta prudenza tre volte al giorno e restavamo il più possibile in posizione orizzontale. Comunque, rimediammo parecchie fratture ossee e serie slogature. Gli uomini dovevano portare sospensori speciali per evitare di spargere sul pavimento pezzi d’organi staccati. Era pressoché impossibile dormire: si avevano incubi di soffocare e di venire quasi stritolati, e bisognava rotolarsi periodicamente da una parte e dall’altra, perché il sangue non ristagnasse e non provocasse piaghe da decubito. Una ragazza si era ridotta così male per la stanchezza che poco mancò continuasse a dormire per tutto il tempo, mentre una costola le sfondava la pelle e schizzava fuori.

Io ero già stato nello spazio parecchie altre volte, e così, quando finalmente la smettemmo di decelerare e andammo in caduta libera, per me fu soltanto un sollievo. Ma certuni non c’erano mai stati, a parte il viaggio per andare ad addestrarci sulla Luna, e furono presi da vertigini improvvise e perdita del senso dell’orientamento. Noialtri che non stavamo male continuavamo a pulire, fluttuando qua e là negli alloggiamenti, armati di spugne e di aspiratori per risucchiare i globuli parzialmente digeriti del "Concentrato ad alto contenuto di proteine e a basso residuo, con sapore di carne bovina" (soia).

Ci godemmo uno splendido panorama di Caronte, mentre scendevamo dall’orbita. Comunque, non c’era molto da vedere. Era semplicemente una sfera fioca, biancastra, con qualche chiazza. Atterrammo a circa duecento metri dalla base. Un trattore a cingoli pressurizzato uscì e si agganciò al traghetto, così non fummo costretti a infilarci nelle tute. Sferragliando ci dirigemmo verso l’edificio principale: uno scatolone di plastica grigiastra senza connotati particolari. Dentro, le pareti erano dello stesso colore squallido e scialbo. Il resto della compagnia era seduto ai banchi, a chiacchierare. C’era un posto libero vicino a Freeland.