L’altra parte del mio cervello, forse un po’ meno esasperata, ribatteva che non aveva importanza il nome dato a un computer: è un mucchio di cristalli-memoria, di banchi logici, dadi e bulloni… Se lo programmi per essere Ghengis Khan, un computer tattico, anche se il suo compito abituale consiste nel seguire il mercato azionario o controllare la conversione dei rifiuti organici.
Ma l’altra voce era ostinata, e diceva che, in base a quel tipo di ragionamento, un uomo era un ciuffo di capelli e un po’ d’osso e di carne tigliosa: non importa che genere d’uomo è, e se gli insegni a dovere, puoi prendere un monaco zen e trasformarlo in un guerriero assetato di sangue.
E allora cosa diavolo sei tu, cosa siamo noi, cosa sono io, rispose l’altra parte. Uno specialista saldatore a vuoto, amante della pace, insegnante di fisica, arraffato dalla Legge della Coscrizione Elitaria e riprogrammato per diventare una macchina per uccidere. Tu, io ho ucciso, e mi è anche piaciuto.
Ma quella era ipnosi, condizionamento motivazionale, risposi a me stesso. Adesso non lo fanno più.
E l’unica ragione per cui non lo fanno più, dissi io, è che sono convinti che ucciderai meglio senza. È logico.
A proposito di logica, il problema originale era: perché mandano un computer logistico a fare un lavoro da uomo? O qualcosa del genere… e via daccapo.
La luce verde si accese, e io spinsi automaticamente l’interruttore con il mento. La pressione scese a 1,3, e finalmente mi resi conto che voleva dire che eravamo vivi e che avevamo vinto la prima schermaglia.
Avevo ragione solo in parte.
19
Mi stavo allacciando la cintura della tunica quando il mio anello mi fece il solletico, e lo alzai per ascoltare. Era la Rogers.
— Mandella, vai a controllare il vano 3. È successo qualcosa: Dalton ha dovuto depressurizzarlo dalla Centrale.
Il vano 3… era la squadra di Marygay! Mi precipitai nel corridoio a piedi nudi e arrivai sul posto proprio mentre aprivano la porta dall’interno della camera a pressione e cominciavano a uscire sparpagliati.
Il primo a uscire fu Bergman. Lo afferrai per un braccio. — Cosa diavolo succede, Bergman?
— Eh? — Mi guardò, ancora stordito, come tutti quelli che uscivano dalla camera. — Oh, sei tu, Mandella. Non lo so. Cosa intendi dire?
Mi infilai oltre la porta, senza mollarlo. — Siete in ritardo, avete depressurizzato in ritardo. Che cos’è successo?
Egli scrollò la testa per schiarirsela. — In ritardo? Come, in ritardo? In ritardo di quanto?
Guardai il mio orologio, per la prima volta. — Non troppo… Gesù Cristo. — Uh, siamo entrati nei gusci alle 0520, no?
— Sì, credo di sì.
Ancora non vedevo Marygay tra le figure che si muovevano tra le file di cuccette e i grovigli di tubi. — Uhm, eravate in ritardo solo di un paio di minuti… ma dovevamo stare sotto pressione per quattro ore soltanto, magari meno. Sono le 1050.
— Uhm. — Bergman scrollò di nuovo il capo. Lo lasciai, passai di nuovo dalla porta e raggiunsi Stiller e Demy.
— Tutti in ritardo, allora — disse Bergman. — Quindi non ci sono difficoltà.
— Uh… — Inutile insistere. — Giusto, giusto… Ehi, Stiller! Hai visto…
Dall’interno: — Medico! Medico!
Stava uscendo qualcuna che non era Marygay. La spinsi bruscamente da parte, mi tuffai oltre la porta, andai a sbattere contro qualcuno e raggiunsi Struve, l’assistente di Marygay, che stava accanto a un bozzolo e parlava, forte e in tono concitato, nel suo anello.
— … e sangue Dio sì che ne abbiamo bisogno…
Era Marygay ancora distesa dentro al guscio ed era…
— … ho sentivo da Dalton…
… coperta da uno strato uniforme e lucente di sangue su ogni centimetro quadrato…
— … quando lei non è uscita…
… cominciava con un grosso livido in alto vicino alla clavicola e continuava giù tra i seni fino a quando superava il sostegno dello sterno…
— … mi sono avvicinato e ho aperto…
… e poi si apriva in uno squarcio che diventava più profondo mentre scendeva lungo il ventre e dove si fermava…
— … sì, è ancora…
… pochi centimetri al di sopra del pube sporgeva un cappio di budella ricoperto dalla membrana…
— … okay, anca sinistra. Mandella…
Marygay era ancora viva, il cuore palpitava, ma la testa striata di sangue penzolava inerte, gli occhi erano rivoltati e si vedevano solo due fessure bianche, e bollicine di schiuma rossa apparivano e scoppiavano all’angolo della bocca ogni volta che esalava un respiro fievole.
— … tatuato sull’anca sinistra. Mandella! Svegliati! Girala e guarda qual è il suo gruppo sanguigno…
— Gruppo zero Rh negativo. Dannazione!… Scusa. Zero negativo. — Non avevo visto quel tatuaggio diecimila volte?
Struve comunicò l’informazione e io mi ricordai all’improvviso dell’astuccio del pronto soccorso che portavo alla cintura, lo sganciai e cominciai a frugarlo.
Arrestare l’emorragia… proteggere la ferita… trattamento antishock: era quel che diceva il manuale delle istruzioni. Ne avevo dimenticato uno, dimenticato uno… liberare le vie respiratorie. Lei respirava, se era questo che intendevano. Come si fa ad arrestare l’emorragia o a proteggere la ferita con una miserabile benda a pressione, quando la ferita è lunga quasi un metro? Il trattamento antishock: quello potevo praticarlo. Tirai fuori la fiala verde, gliela appoggiai contro il braccio e premetti il bottone. Poi posai il lato sterile della benda, molto delicatamente, sopra gli intestini esposti, e le passai la fascia elastica sotto la schiena, la regolai su una tensione quasi zero e la fissai.
— Puoi fare qualcosa d’altro? — chiese Struve.
Mi scostai. Mi sentivo impotente. — Non lo so. A te viene in mente qualcosa?
— Non sono un medico più di quanto non lo sia tu. — Guardò la porta e strinse il pugno, gonfiando il bicipite. — Dove diavolo sono? Hai la morph-plex in quell’astuccio?
— Sì, ma qualcuno mi ha detto di non usarla per le lesioni interne…
— William?
Marygay aveva gli occhi aperti, e cercava di alzare la testa. Mi precipitai a tenerla giù. — Tutto a posto, Marygay. Il medico sta arrivando.
— Cosa… tutto a posto? Ho sete. Acqua.
— No, tesoro, non posso darti dell’acqua, per un po’, almeno. Non potevo dargliela, se doveva finire in chirurgia.
— Perché tutto questo sangue? — disse lei con un filo di voce. Lasciò ricadere la testa all’indietro. — Sono stata cattiva.
— Deve essere stata la tuta — dissi io, rapidamente. — Ricordi le grinze, l’altra volta?
Lei scosse il capo. — La tuta? — Impallidì di colpo e vomitò, debolmente. — Acqua… William, per piacere.
Una voce autoritaria, alle mie spalle: — Prendi una spugna o un pezzo di stoffa intriso d’acqua. — Mi voltai e vidi Doc Wilson con due portabarella.
— Il primo mezzo litro femorale — disse, a nessuno in particolare, mentre guardava sotto la benda a pressione. — Segui il tubo d’evacuazione per un paio di metri e taglialo. Vedi se ha passato del sangue.