Diana scuoteva la testa. — Prepariamoci a incidere — disse a Jarvil. — Fai venire giù Doris. — Il corpo gorgogliava, ma era un suono meccanico, come di un tubo scarico.
Diana spense l’interruttore con il piede e lasciò cadere gli elettrodi, si tolse un anello dal dito e andò a infilare le braccia nello sterilizzatore. Jarvil cominciò a massaggiare il petto dell’uomo con un liquido maleodorante.
Tra le due ustioni lasciate dagli elettrodi c’era un piccolo segno rosso. Impiegai un momento a capire che cos’era. Jarvil lo cancellò. Io mi avvicinai e controllai il collo di Graubard.
— Togliti dai piedi William, non ti sei sterilizzato. — Diana tastò la clavicola del paziente, misurò un poco più sotto e praticò un’incisione, diritta fino alla base dello sterno. Sgorgò il sangue e Jarvil le porse uno strumento che sembrava un grosso tagliabulloni cromato.
Distolsi gli occhi, ma non potei fare a meno di sentire lo strumento che tagliava le costole. Diana chiese retrattori e spugne e così via, mentre io tornavo a sedermi al mio posto. Con la coda dell’occhio la vidi lavorare all’interno della gabbia toracica, massaggiando direttamente il cuore.
Charlie aveva l’aria di sentirsi come mi sentivo io. Esclamò, debolmente: — Ehi, non sfinirti, Diana. — Jarvil aveva portato il carrello del cuore artificiale e stava tendendo due tubi. Diana prese un bisturi e io tornai a distogliere lo sguardo.
Mezz’ora dopo era ancora morto. Spensero la macchina e lo coprirono con un lenzuolo. Diana si lavò il sangue dalle braccia e disse: — Vado a cambiarmi. Torno fra un minuto.
Mi alzai e andai nel suo alloggio, alla porta accanto. Dovevo sapere. Alzai la mano per bussare ma all’improvviso mi fece un male terribile, come se fosse tagliata da una linea sinistra e Diana aprì immediatamente.
— Cosa… oh, vuoi qualcosa per la mano? — Era semivestita ma non ci faceva caso. — Chiedilo a Jarvil.
— No, non è per questo. Cos’è successo, Diana?
— Oh, be’. — Si infilò la tunica dalla testa, e la sua voce risuonò smorzata. È stata colpa mia, credo. L’avevo lasciato solo per un momento.
— E lui ha tentato di impiccarsi.
— Esatto. — Sedette sul letto e mi offrì la sedia. — Ero andata al bagno, e quando sono tornata indietro era morto. Avevo già mandato via Jarvil perché non volevo che la Hilleboe restasse troppo a lungo senza assistenza.
— Ma, Diana… non ha nessun segno sul collo. Nessun livido, niente.
Lei alzò le spalle. — Non è morto impiccato. Ha avuto un attacco cardiaco.
— Qualcuno gli ha fatto un’iniezione. Proprio sul cuore.
Diana mi guardò curiosamente. — Sono stata io, William. Adrenalina. È la procedura abituale.
Quel punto rosso di sangue si forma solo se ti scosti violentemente dal proiettore mentre ti fanno l’iniezione. Altrimenti il medicinale passa attraverso i pori, e non lascia nessuna traccia. — Era morto quando gli hai fatto l’iniezione?
— Dal punto di vista professionale, direi di sì. — Impassibile. — Niente pulsazioni cardiache, polso, respirazione. Pochissimi altri disturbi presentano gli stessi sintomi.
— Già. Capisco.
— È qualcosa… Che succede, William?
O avevo avuto un’improbabile colpo di fortuna, oppure Diana era un’ottima attrice. — Niente. Già, è meglio che vada a farmi dare qualcosa per la mano. — Aprii la porta. — Mi ha risparmiato un sacco di fastidi.
Lei mi guardò dritto negli occhi. — Questo è vero.
In realtà, però, avevo solo scambiato un guaio con un altro. Benché la dipartita di Graubard avesse avuto parecchi testimoni disinteressati, continuava a correre la voce che lo avessi fatto eliminare dalla dottoressa Alsever, perché non ce l’avevo fatta a ucciderlo da solo e non volevo avere la seccatura di un regolare processo davanti a una corte marziale.
Il fatto era che, a norma del Codice Universale di "Giustizia" Militare, Graubard non avrebbe avuto diritto a nessun processo. Bastava che avessi detto: — Tu, tu e tu. Portate fuori quest’uomo e uccidetelo, prego. — E guai al soldato semplice che si fosse rifiutato di eseguire l’ordine.
In un certo senso, i miei rapporti con la truppa migliorarono. Almeno esteriormente, mi mostravano una maggiore deferenza. Ma sospettavo che, almeno in parte, fosse quel tipo meschino di rispetto che si accorda a qualunque carogna che ha dimostrato di essere pericolosa e instabile.
Così il mio nuovo soprannome era Killer. Proprio quando cominciavo ad abituarmi a Vecchio Invertito.
La base si riassestò rapidamente nella solita routine fatta di addestramento e di attesa. Ero quasi impaziente che i taurani si facessero vedere, solo per venirne fuori, in un modo o nell’altro.
I soldati si erano adattati alla situazione molto meglio di me, per ovvie ragioni. Avevano doveri specifici da compiere e parecchio tempo libero per i soliti rimedi militari contro la noia. I miei doveri erano più variati ma mi davano poca soddisfazione, poiché i problemi che arrivavano fino a me erano più o meno del tipo insolubile; quelli che avevano belle soluzioni chiare, senza ambiguità, venivano sbrigati dagli inferiori di grado.
Non avevo mai avuto una gran passione per gli sport e i giochi, ma cominciai a occuparmene sempre di più: era una specie di valvola di sicurezza. Per la prima volta in vita mia, in quell’ambiente teso e claustrofobico, non potevo rifugiarmi nella lettura o nello studio. Perciò tiravo di scherma con gli altri ufficiali, mi sfinivo con le macchine della ginnastica, e tenevo persino una corda per saltare nel mio ufficio. Quasi tutti gli altri ufficiali giocavano a scacchi, ma di solito erano in grado di battermi, e quando vincevo io avevo l’impressione che l’avessero fatto apposta per ingraziarmi. I giochi di parole erano difficili, perché la mia lingua era un dialetto arcaico che gli altri faticavano a manipolare. E io non avevo né il tempo né l’abilità per imparare alla perfezione l’inglese "moderno".
Per un po’ lasciai che Diana mi imbottisse di droghe psicotrope, ma l’effetto cumulativo fu spaventoso: stavo prendendo il vizio in un modo che all’inizio era troppo sottile per spaventarmi. Così lasciai perdere. Provai un po’ di psicanalisi sistematica con il tenente Wilber. Era impossibile. Sebbene lui sapesse tutto sui miei problemi, da un punto di vista accademico, non parlavamo lo stesso linguaggio culturale: quando mi dava consigli sull’amore e sul sesso era più o meno come se io avessi cercato di insegnare a un servo della gleba del Quattordicesimo secolo come doveva fare per entrare nelle grazie del prete e del padrone.
E quella, in fondo, era la radice del mio problema. Ero sicuro che avrei potuto fronteggiare le pressioni e le frustrazioni del comando; essere chiuso in una grotta con quegli individui che qualche volta sembravano poco meno alieni dei nemici; perfino la quasi certezza che tutto sarebbe finito con una morte dolorosa per una causa priva di valore… purché avessi potuto avere con me Marygay. E la sensazione diventava più intensa via via che passavano i mesi.
Il tenente Wilber a questo punto assumeva un’aria severa e mi accusava di romanticizzare la mia situazione. Lui sapeva cos’era l’amore: era stato innamorato anche lui. E la polarità sessuale della coppia non comportava differenze… d’accordo, questo potevo accettarlo; quell’idea era stata molto comune presso la generazione dei miei genitori, benché già presso la mia avesse trovato una prevedibile resistenza. Ma l’amore, diceva Wilber, l’amore era un fiore delicato; era un fragile cristallo; l’amore era una reazione instabile con un periodo di dimezzamento di circa otto mesi. Scemenze, ribattevo io, e lo accusavo di portare dei paraocchi culturali; trenta secoli di società prebellica avevano dimostrato che l’amore era l’unica cosa che poteva durare fino alla tomba e persino oltre, e se lui fosse nato, invece di essere uscito da un guscio, l’avrebbe saputo senza bisogno che glielo dicessi io! A questo punto lui assumeva un un’espressione ironica e tollerante e ripeteva che ero semplicemente vittima di una frustrazione sessuale autoinflitta e di un’illusione romantica.