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— Cosa diavolo, Will…

— Il terremoto! — Tra quanto? — Muovetevi!

La Hilleboe e Charlie mi furono subito dietro. Il gatto era seduto sulla scrivania, e si leccava, tranquillo. Provai l’impulso irrazionale di metterlo nello scafandro: era in quel modo che lo avevano portato dall’astronave alla base, ma sapevo che non poteva resistere per più di qualche minuto. Poi provai l’impulso più ragionevole di disintegrarlo con il mio dito-laser, ma ormai la porta si era chiusa, e noi stavamo già salendo la scala. Per tutta la salita, e per molto tempo ancora, fui ossessionato dall’immagine di quella bestiola indifesa, intrappolata sotto tonnellate di macerie, a morire lentamente mentre l’aria usciva sibilando.

— Le trincee saranno più sicure? — chiese Charlie.

— Non so — dissi io. — Non mi sono mai trovato in un terremoto. — Forse le pareti della trincea si sarebbero chiuse, stritolandoci.

Mi sorprese trovare tanto buio in superficie. La S Doradus stava tramontando; i monitor avevano compensato la scarsa illuminazione.

Un laser nemico rastrellò la radura alla nostra sinistra, facendo schizzare una pioggia di scintille quando sfiorò il supporto di un gigawatt. Ancora non ci avevano visti. Avevamo deciso, tutti, che saremmo stati più al sicuro nelle trincee, e in tre passi arrivammo alla più vicina.

Lì erano in quattro, tra uomini e donne, e uno era gravemente ferito o morto. Ci calammo, e io alzai l’amplificatore d’immagine al logaritmo di due, per vedere chi erano i nostri compagni di trincea. Eravamo fortunati: uno era un granatiere, e avevano anche un lanciarazzi. Riuscivo a malapena a leggere i nomi sugli elmi. Eravamo nella trincea della Brill, ma lei non si era ancora accorta della nostra presenza. Era all’estremità opposta: sbirciava cautamente oltre l’orlo, e dirigeva due squadre in un’azione di fiancheggiamento. Quando le squadre furono in posizione, al sicuro, tornò indietro. — È lei, maggiore?

— Sì — dissi, guardingo. Mi chiedevo se i nostri compagni di trincea erano fra coloro che volevano la mia pelle.

— Cos’è questa storia del terremoto?

Era stata informata della distruzione dell’incrociatore nemico, ma non dell’altro missile. Glielo spiegai in poche parole.

— Nessuno è uscito dal portello — rispose lei. — Non ancora. Immagino che siano tutti andati nel campo di stasi.

— Già, la distanza era la stessa. — Forse qualcuno era ancora nella base sotterranea, e non aveva preso sul serio il mio avvertimento. Attivai con un colpo di mento la frequenza generale per controllare, e in quel momento si scatenò l’inferno.

Il terreno sprofondò sotto di me e poi risalì, flettendosi: ci colpì con tanta violenza da scagliarci in aria, fuori della trincea. Volammo per parecchi metri, abbastanza in alto per vedere la scacchiera di ovali arancioni e gialli, luminescenti, i crateri formatisi dove si erano fermate le bombe nova. Io atterrai in piedi ma il suolo sussultava e scivolava così forte che era impossibile restare ritti.

Con uno scricchiolio in chiave di basso che potei sentire attraverso lo scafandro, l’arca sgombra sopra la nostra base si sgretolò e sprofondò. Parte del lato inferiore del campo di stasi restò esposta, quando il suolo si fermò: e si assestò al nuovo livello con eleganza altera.

Be’, a parte il gatto, sperai che tutti gli altri avessero avuto il tempo e il buon senso di mettersi al riparo sotto la cupola.

Una figura uscì barcollando dalla trincea più vicina a me, e con un sussulto mi resi conto che non era un essere umano. A quella distanza, il mio laser gli aprì un foro attraverso l’elmo: fece altri due passi e cadde riverso. Un altro elmo si affacciò oltre l’orlo della trincea: ne tagliai netta la parte superiore prima che il taurano potesse alzare la sua arma.

Non riuscivo a orientarmi. La sola cosa che non era cambiata era la cupola a stasi, e appariva identica da qualunque parte la guardassi. I laser da un gigawatt erano tutti sepolti, ma uno si era acceso: un faro luminosissimo che rischiarava una nube turbinante di vapori di roccia.

Evidentemente ero in territorio nemico. Mi avviai sul suolo tremante in direzione della cupola.

Non riuscii a mettermi in contatto con nessuno dei comandanti dei plotoni. Tranne la Brill, erano tutti nella cupola, probabilmente. Potei comunicare con Charlie e la Hilleboe: ordinai a quest’ultima di entrare nella cupola e di stanarli tutti quanti. Se anche la prossima ondata era composta di centoventotto taurani, avremmo avuto bisogno del contributo di tutti.

I tremori del suolo si placarono e io riuscii ad arrivare a una trincea "amica": la trincea dei cuochi, in effetti, poiché c’erano solo Orban e Rudkoski.

— A quanto pare, dovrai ricominciare daccapo con la distilleria, soldato.

— Niente di male, signore. Anche il fegato ha bisogno di un po’ di riposo.

Ricevetti una chiamata dalla Hilleboe e attivai la ricezione con il mento — Signore… qui c’erano solo dieci persone. Gli altri non ce l’hanno fatta.

— Erano rimasti giù? — Mi pareva che avessero avuto tutto il tempo di salire.

— Non so, signore.

— Non importa. Faccia la conta e mi dica quanta gente abbiamo, tutti compresi. — Provai di nuovo la frequenza dei comandanti dei plotoni, e anche questa volta non ottenni risposta.

Per un paio di minuti restammo in attesa del fuoco laser dei nemici, ma non successe niente. Probabilmente aspettavano i rinforzi. La Hilleboe richiamò. — Ne ho trovati solo cinquantatré, signore. Alcuni potrebbero essere svenuti.

— Bene. Dica loro di star fermi fino a… — Poi comparve la seconda ondata: i trasporti ruggirono sopra l’orizzonte, con i reattori puntati verso di noi per decelerare. — Sparate qualche razzo contro quei bastardi! - urlò a tutti la Hilleboe. Ma nessuno era riuscito a tenere stretto un lanciarazzi, quando eravamo stati sbatacchiati di qua e di là. Non c’erano neppure dei lanciagranate, e la distanza era troppo grande perché i laser a mano servissero a qualcosa.

I trasporti erano quattro o cinque volte più grossi di quelli della prima ondata. Uno atterrò a circa un chilometro da noi, fermandosi appena il tempo necessario per scaricare le truppe. Erano più di cinquanta, probabilmente sessantaquattro… moltiplicato otto faceva cinquecentododici. Non ce l’avremmo fatta a ricacciarli.

— Ascoltate tutti, qui è il maggiore Mandella. — Cercai di dare alla mia voce un tono calmo. — Dobbiamo ritirarci subito nella cupola, rapidamente ma con ordine. So che siete sparpagliati un po’ dappertutto in questo inferno. Se appartenete al secondo o al Quarto plotone, restate fermi per un minuto e sparate per coprire il Primo e il Terzo plotone e gli specialisti che si ritirano.

"Primo e Terzo e specialisti, ritiratevi fino a coprire circa la metà della distanza che vi divide dalla cupola, poi mettetevi al coperto e proteggete il Secondo e il Quarto mentre si ritirano. Poi loro arriveranno all’orlo della cupola e copriranno voi mentre percorrerete l’ultimo tratto." Non avrei dovuto usare il verbo "ritirarsi"; nel linguaggio militare non esisteva. Si diceva "azione di sganciamento".

Fu molto più sganciamento che azione. Otto o nove persone sparavano, ma tutte le altre erano in piena fuga. Rudkoski e Orban erano svaniti. Sparai un paio di colpi prendendo la mira con cura, ma senza grandi risultati, poi corsi all’altra estremità della trincea, ne uscii e corsi verso la cupola.

I taurani cominciarono a sparare con i razzi, ma quasi tutti i tiri sembravano troppo alti. Vidi due dei nostri esplodere prima di arrivare a mezza strada: trovai un macigno bello e grosso e mi nascosi. Poi sbirciai fuori e decisi che solo due o tre taurani erano abbastanza vicini da costituire sia pure lontanamente possibili bersagli per i laser, e che era meglio non attirare troppo l’attenzione su di me. Coprii di corsa l’ultimo tratto fino all’orlo dei campo, e mi fermai per rispondere al fuoco. Dopo un paio di colpi, mi accorsi che facevo solo da bersaglio: a quanto potevo vedere, c’era solo un’altra persona che correva ancora verso la cupola.