Un razzo mi sfrecciò accanto, così vicino che avrei potuto toccarlo. Piegai le ginocchia e scattai, ed entrai nella cupola in una posa non esattamente dignitosa.
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Quando fui dentro, vidi il razzo che mi aveva mancato fluttuare pigramente nella semioscurità, sollevarsi lentamente fino a uscire dalla parte opposta della cupola. Si sarebbe disintegrato nel momento in cui fosse uscito, perché tutta l’energia cinetica che aveva perso rallentando bruscamente a 16,3 metri al secondo sarebbe ritornata sotto forma di calore.
Nove persone giacevano morte, a faccia in giù, appena all’interno del campo. Non era un imprevisto, anche se non si trattava di una di quelle cose che di solito si dicono alle truppe.
Gli scafandri da combattimento erano intatti, altrimenti non sarebbero riusciti ad arrivare fin lì; ma durante quegli ultimi minuti caotici si era danneggiato lo speciale rivestimento isolante che li proteggeva dal campo di stasi. Quindi, non appena erano entrati, ogni attività elettrica dei loro corpi si era arrestata, e questo li aveva uccisi istantaneamente. Inoltre, poiché nessuna molecola nel loro corpo poteva muoversi a una velocità superiore ai 16,3 metri al secondo, si erano immediatamente congelati: la temperatura dei loro corpi si era stabilizzata a 0,426 gradi assoluti.
Decisi di non girarli per vedere i loro nomi. Non ancora. Dovevamo ideare una specie di posizione difensiva prima che i taurani entrassero nella cupola, se avessero deciso di attaccare invece di aspettare.
A gesti, laboriosamente, riuscii a far radunare tutti al centro del campo, sotto la coda del caccia, dove c’erano le armi sulle rastrelliere.
C’erano armi in abbondanza, poiché avevamo previsto di fornire un numero di soldati tre volte maggiore. Dopo aver distribuito a ciascuno uno scudo e una corta spada, tracciai sulla neve una domanda: BRAVI ARCIERI? ALZATE LE MANI. Trovai cinque volontari, e altri tre ne scelsi io, in modo da poter utilizzare tutti gli archi. Venti frecce per arco. Erano le armi a lunga gittata più efficienti di cui potevamo disporre: le frecce erano pressoché invisibili nel lento volo, pesanti e con punte mortali di un cristallo duro come il diamante.
Disposi gli arcieri in cerchio intorno al caccia, le cui pinne li avrebbero protetti parzialmente dai proiettili che fossero arrivati da tergo; tra un arciere e l’altro schierai altre quattro persone: due lancieri, uno armato di "bastone" e uno armato con un’ascia e una dozzina di coltelli da lancio. In teoria, quello schieramento poteva tenere testa al nemico a qualunque distanza, dall’orlo del campo fino al combattimento corpo a corpo.
In pratica, poiché erano seicento contro quarantadue, i taurani potevano entrare con una pietra in ciascuna mano, senza scudi né armi speciali, e ridurci in poltiglia.
Purché sapessero che cos’era un campo di stasi. Sotto ogni altro punto di vista, la loro tecnologia sembrava aggiornata.
Per parecchie ore non accadde nulla. Ci annoiavamo per quanto può annoiarsi chi aspetta di morire. Non potevamo parlare; non c’era niente da vedere tranne l’immutabile cupola grigia, la neve grigia, l’astronave grigia e pochi soldati grigi, tutti identici. Niente da ascoltare, assaporare o fiutare tranne te stesso.
Quelli di noi che ancora provavano qualche interesse per la battaglia sorvegliavano la parte bassa della cupola, in attesa di veder spuntare i primi taurani. Perciò occorse un secondo perché ci rendessimo conto di quello che succedeva, quando incominciò l’attacco. Un nugolo di dardi scese brulicando dall’alto, entrando nella cupola a una trentina di metri dal suolo, diretto verso il centro dell’emisfero.
Gli scudi erano abbastanza grandi perché, piegandosi leggermente, ci si potesse riparare quasi tutto il corpo: quanti videro arrivare i dardi riuscirono a proteggersi senza difficoltà. Quelli che voltavano le spalle o che si erano addormentati accanto all’interruttore, per sopravvivere dovevano affidarsi alla fortuna: non c’era la possibilità di gridare un avvertimento, e un proiettile impiegava solo tre secondi per arrivare dall’orlo al centro della cupola.
Fummo fortunati: i caduti furono solo cinque. Una di essi era un’arciera, la Shubik. Io raccolsi il suo arco e aspettammo: prevedevamo un immediato attacco a terra.
L’attacco non venne. Dopo mezz’ora, feci il giro del cerchio e spiegai a gesti che la prima cosa da fare, se succedeva qualcosa, era toccare la persona alla propria destra: questa avrebbe fatto lo stesso, e così via, lungo tutta la linea.
Forse fu quell’idea a salvarmi la vita. Il secondo attacco con i dardi, un paio d’ore dopo, mi arrivò alle spalle. Mi sentii urtare, urtai a mia volta la persona alla mia destra, mi girai e vidi il nugolo che scendeva. Alzai lo scudo per proteggermi la testa, e i proiettili colpirono un secondo più tardi.
Deposi l’arco per strappare tre dardi dallo scudo, e in quel momento cominciò l’attacco al suolo.
Era uno spettacolo strano, impressionante. Entrarono nel campo in trecento, simultaneamente, quasi spalla a spalla, intorno al perimetro della cupola. Avanzavano al passo: ognuno impugnava uno scudo rotondo, ampio appena a sufficienza per nascondergli il torace massiccio. E scagliavano dardi simili a quelli con cui ci avevano bersagliato prima.
Piazzai lo scudo davanti a me — alla base aveva delle piccole estensioni che servivano a tenerlo ritto — e quando scagliai la prima freccia compresi che avevamo una possibilità di farcela. Colpì un taurano al centro dello scudo, lo trapassò e penetrò nella tuta.
Fu un massacro unilaterale. I dardi non erano molto efficaci, senza il fattore sorpresa, ma quando uno mi passò sopra la testa, arrivando da dietro, mi fece scorrere un lungo brivido tra le scapole.
Con venti frecce uccisi venti taurani. Quelli serravano le file ogni volta che uno di loro cadeva: non era neppure necessario prendere la mira. Quando rimasi senza frecce, provai a rilanciare contro di loro i loro stessi dardi. Ma contro quei piccoli proiettili, i leggeri scudi erano una protezione sufficiente.
Ne uccidemmo più della metà con frecce e lance, prima ancora che arrivassero alla distanza adatta per il corpo a corpo. Sguainai la spada e aspettai. La superiorità numerica era ancora loro: più di tre a uno.
Quando arrivarono a meno di dieci metri, fu il momento di gloria per i nostri armati di chakra. Sebbene quel disco roteante fosse ben visibile e impiegasse più di mezzo secondo per arrivare a segno, quasi tutti i taurani reagirono con la stessa inefficienza, alzando lo scudo per deviarlo. Le pesanti lame temperate e affilate come rasoi tagliarono gli scudi leggeri, come seghe elettriche che affondassero nel cartone.
Il primo scontro corpo a corpo ebbe luogo con i "bastoni", che erano barre metalliche lunghe due metri, terminanti alle estremità in lame a doppio taglio. I taurani avevano un metodo abbastanza agghiacciante, o eroico, a seconda dei punti di vista, per affrontarli. Afferravano semplicemente la lama e morivano. Mentre l’umano cercava di districare l’arma dalla stretta del nemico morto, uno spadaccino taurano, con una scimitarra lunga più di un metro, si faceva avanti e lo uccideva.
Oltre alle spade, avevano una specie di bolo, una lunga corda elastica che terminava con dieci centimetri di qualcosa di simile al filo spinato, e con un piccolo peso per dargli slancio. Era un’arma pericolosa per tutti, amici e nemici: se mancava il bersaglio tornava indietro di scatto, imprevedibilmente, e dove colpiva colpiva. Ma i taurani centravano il bersaglio molto spesso, nascondendosi dietro gli scudi e facendo avvinghiare il filo spinato intorno alle caviglie dei nostri.