Mi misi schiena contro schiena con il soldato Erikson, e lavorando di spada riuscimmo a restare in vita per i minuti che seguirono. Quando i taurani furono ridotti a un paio di dozzine di superstiti, girarono sui tacchi e si avviarono per uscire. Gli scagliammo dietro qualche dardo, colpendone tre, ma non ce la sentivamo di inseguirli. C’era caso che tornassero indietro a ricominciare il massacro.
Eravamo rimasti in piedi in ventotto. Il terreno era coperto da un numero quasi decuplo di taurani morti, ma la cosa non ci diede molta soddisfazione.
Avrebbero potuto ricominciare, con altri trecento. E questa volta l’avrebbero spuntata.
Passammo da un cadavere all’altro, svellendo frecce e lance, e poi tornammo a piazzarci intorno al caccia. Nessuno si prese la briga di recuperare i bastoni. Contai i miei: Charlie e Diana erano ancora vivi (la Hilleboe era stata una delle vittime della tattica taurana del bastone), e così pure due ufficiali specialisti, Wilber e Szydlowska. Rudkoski era ancora vivo, ma Orban s’era buscato un colpo di dardo.
Dopo un giorno d’attesa, cominciammo a pensare che il nemico avesse optato per una guerra di logoramento, anziché ripetere l’attacco al suolo. I dardi continuavano a piovere, non più a sciami, ma a due e a tre e a dieci per volta, e sempre da angolazioni diverse. Noi non potevamo stare sempre all’erta: ogni tre o quattro ore riuscivano a colpire qualcuno.
Dormivamo a turno, due per volta, sopra il generatore del campo di stasi. Poiché stava direttamente sotto il caccia, era il posto più sicuro della cupola.
Di tanto in tanto, un taurano faceva capolino sull’orlo del campo, evidentemente per vedere in quanti eravamo rimasti. Qualche volta scagliavamo una freccia contro di lui, tanto per tenerci in esercizio.
Dopo un paio di giorni, i dardi non piovvero più. Pensai che forse li avevano finiti. O forse avevano deciso di smetterla quando noi ci fossimo ridotti a venti superstiti.
C’era una terza, più probabile, possibilità. Portai uno dei bastoni all’orlo del campo e lo spinsi oltre, un centimetro o giù di lì. Quando lo ritirai, la punta era fusa. La mostrai a Charlie e lui si dondolò avanti e indietro (era l’unico modo per annuire, con uno scafandro addosso): la cosa era già accaduta, una delle prime volte, quando il campo di stasi non aveva funzionato. I taurani l’avevano semplicemente saturato di fuoco laser e adesso aspettavano che ci stufassimo dell’inazione e spegnessimo il generatore. Probabilmente se ne stavano seduti a bordo dei loro trasporti, a giocare all’equivalente taurano del ramino.
Mi sforzai di pensare. Era difficile concentrare la mente su qualcosa, in quell’ambiente ostile, mentre dovevi voltarti indietro ogni due secondi. Era qualcosa che aveva detto Charlie. Proprio ieri. Non riuscivo a rammentare. Allora non avrebbe funzionato: questo era tutto ciò che ricordavo. Poi finalmente ci arrivai.
Chiamai tutti intorno a me e scrissi sulla neve:
Szydlowska sapeva dove trovare gli attrezzi adatti, sul caccia. Per fortuna, avevamo lasciato aperti tutti i portelli prima di attivare il campo di stasi: le serrature erano elettroniche e si sarebbero bloccate. Rastrellammo un assortimento di chiavi inglesi dalla sala macchine e salimmo nella cabina. Lui sapeva come fare a rimuovere la piastra che dava accesso al vano bombe. Lo seguii, strisciando nel tubo largo un metro.
Normalmente, immagino, sarebbe stato buio pesto. Ma il campo di stasi illuminava il vano bombe con lo stesso fioco chiarore senza ombre che c’era all’esterno. Il vano bombe era troppo piccolo per ospitarci entrambi, così io restai a guardare, affacciato all’estremità del tubo.
I portelli avevano anche un comando manuale, e quindi fu facile. Szydlowska girò una manovella e tutto fu a posto. Liberare le due bombe nova dalle imbragature fu un’altra faccenda. Alla fine, lui ritornò in sala macchine a prendere un piede di porco. Ne staccò una e io presi l’altra, e la facemmo rotolare fuori del vano bombe.
Il sergente Anghelov ci stava già lavorando sopra, quando noi due scendemmo. Per armare la bomba bastava svitare la spoletta sulla punta, e infilare qualcosa nell’intercapedine, in modo da far saltare i meccanismi di blocco e le sicure.
Le portammo in fretta e furia sull’orlo, sei persone per bomba, e le posammo una accanto all’altra. Poi facemmo un segnale con le braccia ai quattro in posizione accanto alle maniglie del generatore del campo. Quelli lo sollevarono e percorsero dieci passi nella direzione opposta. Le bombe sparirono, quando l’orlo del campo gli scivolò sopra.
Non ci fu dubbio che le bombe esplosero. Per un paio di secondi, fuori fece caldo quanto all’interno di una stella, e se ne accorse persino il campo di stasi: per un momento un terzo della cupola si illuminò di un rosa cupo, e poi ritornò grigio. Ci fu un lieve senso di accelerazione, come si può provare in un ascensore lento. Questo significava che stavamo scivolando verso il fondo del cratere. Avremmo trovato un fondo solido? Oppure saremmo affondati attraverso la roccia fusa, per restare intrappolati come mosche nell’ambra? Era inutile pensarci. Forse, se fosse accaduto, avremmo potuto aprirci una via d’uscita con il laser da un gigawatt del caccia.
Dodici di noi, almeno.
PER QUANTO TEMPO? scarabocchiò Charlie sulla neve, ai miei piedi.
Era una domanda maledettamente giusta. Io sapevo solo la quantità di energia che liberavano due bombe nova. Non sapevo che razza di sfera infuocata potevano fare, ed era essa a determinare la temperatura al momento della detonazione e la grandezza del cratere. Non conoscevo le capacità termiche della roccia circostante, né il suo punto di ebollizione. Scrissi: UNA SETTIMANA, CHISSÀ? DEVO PENSARCI.
Il calcolatore del caccia avrebbe potuto dirmelo in un millesimo di secondo, ma non parlava. Cominciai a scrivere equazioni sulla neve, cercando di ottenere un massimo e un minimo del tempo che sarebbe occorso perché la temperatura esterna scendesse a 500 gradi. Anghelov, le cui nozioni di fisica erano più aggiornate delle mie, fece i suoi calcoli dall’altra parte del caccia.
La mia risposta diceva da sei ore a sei giorni (anche se, per raffreddarsi in sei ore, la roccia circostante avrebbe dovuto condurre calore come se fosse rame puro) e Anghelov ottenne un minimo di cinque ore e un massimo di quattro giorni e mezzo. Io votai per sei e nessun altro ebbe diritto al voto.
Facemmo del gran dormire. Charlie e Diana giocavano a scacchi scarabocchiando i simboli sulla neve; io non riuscivo a tenere in mente i movimenti dei pezzi. Controllai più volte i miei calcoli, e continuavo a ottenere come risposta sei giorni. Controllai anche i calcoli di Anghelov, e sembravano giusti, ma non cedetti. Non ci avrebbe fatto male restare dentro gli scafandri per un giorno e mezzo in più. Discutemmo giovialmente in concisi segni stenografici.
Eravamo diciannove il giorno che avevamo buttato fuori le bombe. Eravamo ancora diciannove sei giorni dopo, quando mi fermai un attimo, con la mano sull’interruttore del campo. Che cosa ci aspettava là fuori? Sicuramente avevamo ucciso tutti i taurani nel raggio di parecchi chilometri dall’esplosione. Ma poteva esserci stata una forza di riserva molto più lontana, e magari adesso era in paziente attesa sull’orlo del cratere. Però, adesso potevi spingere un bastone attraverso il campo e ritirarlo ancora intero.
Dispersi i miei a intervalli regolari intorno all’area, perché non ci liquidassero tutti con un colpo solo. Poi, pronto a riattivarlo immediatamente se qualcosa fosse andato storto, spensi il campo.
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La mia radio era ancora sintonizzata sulla frequenza generale: dopo oltre una settimana di silenzio, le mie orecchie furono aggredite da un parlottio chiassoso e felice.