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— Mandella.

— Signore?

— Tu sei il più bruciacchiato di tutti. Il tuo trasformatore d’immagine era regolato sul normale?

Oh, merda. — No, signore. Logaritmo di due.

— Vedo. Chi era il tuo comandante di squadra per le esercitazioni?

— Facente funzioni di caporale Potter, signore.

— Soldato Potter, sei stato tu a ordinargli di usare l’intensificazione dell’immagine?

— Signore, io… non ricordo.

— Non ricordi. Bene, come esercizio per la memoria, puoi unirti ai morti. Va bene così?

— Sì, signore.

— Bene. I morti faranno un ultimo pasto questa sera, e a partire da domani, niente razioni. Qualche domanda? — Probabilmente intendeva scherzare. — Bene. Rompete le righe.

Scelsi il rancio che sembrava promettere il maggior contenuto di calorie, e portai il mio vassoio vicino alla Potter.

— Che razza di gesto donchisciottesco. Comunque, grazie.

— Di niente. Tanto, già intendevo perdere qualche chilo. — Io non riuscivo proprio a vedere dove avesse del peso di troppo.

— Io conosco un buon esercizio — dissi io. Lei sorrise senza alzare gli occhi dal vassoio. — Hai qualcuno, per questa notte?

— Avevo pensato di chiedere a Jeff…

— Allora sarà meglio che ti sbrighi. Sta sbavando dietro a Maejima. — Bene, era la verità. Ci sbavavano tutti.

— Non lo so. Magari dovremmo risparmiare le forze. Il terzo giorno…

— Andiamo. — Le grattai leggermente con un’unghia il dorso della mano. — Non siamo stati insieme dopo il Missouri. Magari ho imparato qualcosa di nuovo.

— Magari. — lei alzò la testa verso di me, con aria furba. — Okay.

In effetti, era lei che aveva imparato un trucco nuovo. Lo chiamava il cavatappi francese. Non volle dirmi, però, chi glielo aveva insegnato. Mi sarebbe piaciuto stringergli la mano, a quel tipo. Quando avessi recuperato le forze.

8

Le due settimane di addestramento intorno a Base Miami ci costarono undici vite. Dodici, se contate anche Dahlquist. Credo che dover passare il resto della tua vita su Caronte, senza una mano e senza le due gambe, sia più o meno come morire.

Foster fu schiacciato da una frana e Freeland ebbe un’avaria allo scafandro che lo fece congelare prima che avessimo il tempo di portarlo dentro. Quasi tutti gli altri erano tipi che non conoscevo altrettanto bene. Ma ci dispiacque per tutti. E quelle morti sembravano solamente spaventarci, anziché indurci alla prudenza.

E poi via, nell’emisfero buio. Un apparecchio ci portò là a gruppi di venti e ci scaricò accanto a un mucchio di materiale da costruzione, graziosamente immerso in uno stagno di elio II.

Adoperammo i grappini per tirar fuori il materiale dallo stagno. Non è prudente andarci dentro a guado, perché quella roba ti si arrampica addosso ed è difficile capire cosa ci sia sotto: potresti mettere un piede su un lastrone di idrogeno e non avere la fortuna occorrente.

Io avevo proposto che cercassimo di far evaporare lo stagno con i nostri laser, ma dieci minuti di fuoco concentrato non bastarono ad abbassare decentemente il livello dell’elio. E non bolliva neanche: l’elio II è un "superfluido", e quel po’ d’evaporazione che c’era, avveniva regolarmente, su tutta la superficie. Niente punti più caldi, e quindi niente bollicine.

Non dovevamo usare le luci, per "non venire avvistati". C’era il chiarore delle stelle, in abbondanza, con il trasformatore d’immagini alzato al logaritmo di tre o di quattro, ma ogni fase d’amplificazione comportava una perdita dei dettagli. Al logaritmo di quattro il paesaggio appariva come un rozzo quadro monocromatico, e non riuscivi a leggere i nomi sugli elmi degli altri, a meno che non fossero proprio davanti a te.

Comunque, il paesaggio non era molto interessante. C’era una mezza dozzina di crateri di media grandezza aperti dalle meteore (tutti esattamente con lo stesso livello di elio II) e una vaga impressione di piccole montagne appena oltre l’orizzonte. Il terreno accidentato aveva la consistenza d’una ragnatela gelata: ogni volta che posavi il piede, sprofondavi di un centimetro, con uno scricchiolio sinistro. Finiva per darti ai nervi.

Impiegammo quasi tutta la giornata per tirar fuori la roba dallo stagno. Dormicchiammo a turno: si poteva dormire in piedi, seduti, oppure sdraiati a pancia in giù. Io non dormivo bene in nessuna di quelle posizioni, e perciò non vedevo l’ora che il bunker fosse costruito e pressurizzato.

Non potevamo costruirlo sottoterra, perché si sarebbe riempito di elio II, perciò la prima cosa da fare era costruire una piattaforma isolante, un sandwich di permaplastica e vuoto a tre strati.

Io facevo funzioni di caporale, con una squadra di dieci uomini. Stavamo trasportando gli strati di permaplastica sul posto scelto per la costruzione — due uomini ce la facevano facilmente a portarne uno — quando un "mio" uomo scivolò e cadde sul dorso.

— Accidenti, Singer, stai attento a dove metti i piedi. — Avevamo avuto un paio di morti in quel modo.

— Scusami, caporale. Ho inciampato.

— Già, ma stai attento. — Si rialzò, tutto a posto, e lui e il suo compagno collocarono la lastra e tornarono indietro per prenderne un’altra.

Tenni d’occhio Singer. Pochi minuti dopo, stava praticamente barcollando, e non è facile riuscirci in quello scafandro corazzato e cibernetico.

— Singer! Dopo aver messo giù la lastra, voglio darti un’occhiata.

— Okay. — Finì faticosamente il suo compito e poi arrivò ondeggiando.

— Fammi dare un’occhiata alle letture. — Aprii lo sportello che aveva sul petto per vedere il monitor medico. La temperatura era di due gradi troppo alta; la pressione sanguigna e il ritmo cardiaco erano entrambi elevati. Non fino alla linea rossa, comunque.

— Ti senti male o qualcosa del genere?

— Diavolo, Mandella. Mi sento okay, solo un po’ stanco. Da quando sono caduto ho un po’ di vertigini.

Spinsi con il mento la combinazione del medico. — Doc, qui Mandella. Vuoi venire qui per un minuto?

— Sicuro. Dove sei? — Agitai il braccio e lui lasciò lo stagno e arrivò.

— Qual è il problema? — Gli mostrai le letture di Singer.

Lui sapeva cosa volevano dire anche tutti gli altri quadranti e ammennicoli vari, perciò impiegò un po’ di tempo. — A quel che posso dire io, Mandella… scotta soltanto.

— Diavolo, questo potevo dirlo anch’io — fece Singer.

— Forse è meglio che tu gli faccia dare un’occhiata dall’armiere. — Due di noi avevano fatto un corso accelerato di manutenzione degli scafandri. Erano i nostri "armieri".

Con un colpo di mento chiamai Sanchez e gli chiesi di venire subito con la cassa degli attrezzi.

— Fra un paio di minuti, caporale. Sto trasportando una lastra.

— Bene, mettila giù e vieni qui subito. — Cominciavo a sentirmi a disagio. Mentre lo aspettavamo, il medico e io guardammo meglio lo scafandro di Singer.

— Uh-oh — disse Doc Jones. — Guarda qui. — Girai intorno a Singer e guardai quello che mi indicava. Due delle pinne dello scambiatore di calore si erano piegate e deformate.

— Cosa c’è? — chiese Singer.

— Sei caduto sullo scambiatore di calore, giusto?

— Sicuro, caporale… proprio così. Non deve funzionare più tanto bene.

— Credo che non funzioni per niente - fece Doc.

Arrivò Sanchez con la sua cassetta diagnostica e gli spiegammo cos’era successo. Lui guardò lo scambiatore di calore, poi vi innestò un paio di spine e ottenne una lettura digitale sul piccolo monitor portatile. Non sapevo che cosa stesse misurando, ma risultò zero con otto decimali.