Improvvisamente, Don non riuscì più a parlare, perché un nodo perfido gli stringeva la gola. Abbracciò il lungo collo dell’equino, e cominciò a piangere, silenziosamente.
Sonno emise un nitrito soffocato, rendendosi conto che c’era qualcosa che non andava, e cercò di toccare il giovane con le narici umide. Don sollevò il capo.
«Addio, amico. Abbi cura di te.»
Poi si voltò, bruscamente, e si mise a correre verso i dormitori.
CAPITOLO II
«CONTATO, CONTATO, PESATO E DIVISO»
Mene, mene, tekel, ufarsin
L’elicottero della scuola lo fece scendere all’aeroporto di Albuquerque. Fu costretto a correre per non perdere il razzo, poiché il controllo del traffico aveva ordinato loro di non sorvolare il Sandia Weapons Center, ma di descrivere un ampio giro intorno. Quando si presentò al peso, s’imbatté in una nuova pignoleria dei servizi di sicurezza.
«Hai una macchina fotografica là dentro, figliolo?» aveva domandato il direttore del peso, quando Don gli aveva consegnato il bagaglio.
«No. Perché?»
«Perché rovineremmo la pellicola, passando il bagaglio al fluoroscopio, ecco il perché.» Evidentemente i raggi X non rivelarono alcuna bomba nascosta nella biancheria; il bagaglio gli fu riconsegnato, e Don salì a bordo… sul razzo Espresso di Santa Fé, che faceva servizio tra il Sud-Ovest e Nuova Chicago. Una volta a bordo, si allacciò le cinture di sicurezza, affondò nei comodi cuscini del sedile imbottito, e aspettò.
Dapprima, il frastuono del decollo gli diede più fastidio della pressione. Ma il rumore diminuì, o meglio, si allontanò, quando essi superarono la barriera del suono, mentre l’accelerazione diventò sempre peggiore; a un certo punto, Don perse i sensi.
Riacquistò conoscenza mentre il razzo era in caduta libera, e stava descrivendo un’alta parabola ad arco sopra le grandi pianure. Immediatamente, provò un enorme sollievo nel non sentire più quel peso schiacciante, tremendo, premergli su tutto il corpo, sottoporre il suo cuore a una tensione quasi insopportabile, trasformare i suoi muscoli in acqua… ma, prima di poter godere realmente quel benedetto sollievo, si accorse di una nuova sensazione; lo stomaco, animato da chissà quali oscuri propositi, aveva cominciato a scalare le pareti del tubo digerente, e tentava con un certo successo di salirgli in gola.
Dapprima si allarmò, non potendo giustificare l’inattesa e sgradevolissima sensazione. Poi gli venne d’un tratto un folle sospetto… poteva essere quello? Oh, no! Non poteva essere… non poteva trattarsi di mal di spazio, non poteva capitare a lui. Lui era nato in caduta libera, dopotutto; la nausea spaziale era una cosa che riguardava i terricoli striscianti, non lui!
Ma il sospetto continuò a crescere, trasformandosi in certezza; lunghi anni di vita tranquilla, facile, sulla superficie di un pianeta, avevano logorato la sua immunità. Con un crescente imbarazzo segreto, ammise che certamente lui si comportava come un terricolo. Non gli era venuto in mente di chiedere un’iniezione antinausea, prima del decollo, benché fosse passato tranquillamente davanti allo sportello sul quale era dipinta una grande croce rossa.
Ben presto, il suo imbarazzo segreto diventò pubblico; ebbe appena il tempo di afferrare il sacchetto di plastica che veniva fornito per quello scopo. Dopo si sentì meglio, anche se molto più debole, e ascoltò distrattamente la descrizione registrata del territorio verso il quale stavano scendendo, la descrizione che gli altoparlanti di bordo trasmettevano senza soste. Finalmente, nelle vicinanze di Kansas City, il cielo nerissimo diventò di nuovo purpureo, gli strati più alti dell’atmosfera scintillarono di colori iridescenti e toccarono il razzo, le grandi ali pieghevoli vennero aperte, e i passeggeri avvertirono nuovamente il peso, mentre il razzo scendeva come un aliante, lungo la sua parabola, avvicinandosi a Nuova Chicago mentre l’urlo dell’aria si faceva sempre più violento. Don fece assumere di nuovo al sedile-cuccetta la posizione eretta, e si rimise a sedere.
Venti minuti dopo, quando l’aeroporto parve salire incontro a loro, i razzi del muso dell’apparecchio vennero azionati dal radar, e l’Espresso di Santa Fé frenò la sua caduta, per atterrare dolcemente. L’intero viaggio aveva occupato un tempo inferiore al trasferimento in elicottero dalla scuola ad Albuquerque… meno di un’ora per lo stesso tragitto, in direzione est, che i carri coperti avevano un tempo percorso in ottanta giorni, con l’aiuto della buona sorte e della clemenza del tempo e degli indiani. Il razzo locale atterrò su di un campo alla periferia della città, un campo che si trovava accanto all’immenso campo, ancora lievemente radioattivo, che era il più grande astroporto del pianeta e, nello stesso tempo, la precedente ubicazione della Vecchia Chicago.
Don indugiò, lasciando sbarcare prima di lui una famiglia di indiani navajos, e si accodò alla squaw. Una passerella mobile era stata accostata al razzo; Don salì su di essa, e si lasciò trasportare fino alla stazione. Una volta all’interno, rimase abbagliato dalle enormi dimensioni del posto, un dedalo fatto di decine di differenti livelli, sopra e sotto la superficie. La Stazione Gary non serviva solamento l’Espresso di Santa Fé, la Strada 66, e i molti razzi locali che collegavano Nuova Chicago al Sud-Ovest; serviva anche una dozzina di altre linee locali, insieme agli anfibi delle linee sottomarine, i numerosi tubi di recapito, e le astronavi che collegavano la Terra a Circum-Terra… e, di là, permettevano i contatti con la Luna, Venere, Marte, e le lune di Giove; era il cordone ombelicale di un impero che abbracciava ben più di un solo mondo.
Ormai avvezzo da molti anni al vasto e vuoto deserto del Nuovo Messico, e, prima di questo, alle ben più vaste e desolate distese degli spazi siderali, Don si sentì oppresso e irritato da quella massa brulicante e chiassosa di persone e di attività. Avvertì il senso di perdita di dignità che si sprigionava dall’immagine umiliante di uomini che si comportano come formiche, anche se, naturalmente, questo pensiero non si formò a parole, ma fu soltanto una sensazione inesprimibile. Eppure, doveva affrontare quel mondo tumultuoso… riuscì a individuare i tre globi intrecciati della Interplanet Lines, e, seguendo una lunga teoria di frecce luminose, raggiunse gli uffici di prenotazione della grande compagnia interplanetaria.
Un impiegato del tutto indifferente alle sue richieste gli assicurò che il suo ufficio non aveva ricevuto alcuna prenotazione per la Valchiria a nome del signor Donald Harvey. Pazientemente, Don spiegò che la prenotazione era stata fatta da Marte, ed esibì il radiogramma dei suoi genitori. Infastidito fino al punto da decidere un’azione fisica, l’impiegato finalmente acconsentì a telefonare a Circum-Terra, facendo oscuramente capire a Don che le conseguenze di quella coercizione inconsulta sarebbero molto verosimilmente ricadute su di lui; ma la grande stazione spaziale, in orbita fissa intorno alla Terra, confermò l’esistenza della prenotazione. L’impiegato tolse la comunicazione, e si rivolse a Don, con aria infastidita e affaticata a un tempo:
«Va bene, allora, puoi pagare il biglietto qui.»
Don ebbe la sensazione di precipitare nel vuoto.
«Io credevo che il biglietto fosse già stato pagato.» Aveva in una tasca interna la lettera di credito di suo padre, ma la somma non era sufficiente a pagare il passaggio dalla Terra a Marte.
«Eh? Non hanno detto niente, su un pagamento già effettuato.»