Parto domani, in dirigibile.
Giorno 10
Animali.
La prima squadra scesa sul pianeta aveva certo la fissazione per gli animali. Cavallo, Orsa, Aquila. Per cinque giorni abbiamo sorvolato la costa orientale di Equus, una linea irregolare chiamata la Criniera. Abbiamo impiegato l’ultimo giorno nella traversata di un breve tratto del mar Medio fino a un’ampia isola chiamata Gatto. Oggi scarichiamo passeggeri e merci a Felix, la “città principale” dell’isola. Da quel che posso vedere dal ponte panoramico e dalla torre d’attracco, in questo raggruppamento disordinato di catapecchie e di baracche non devono esserci più di cinquemila persone.
Successivamente il dirigibile compirà un percorso di ottocento chilometri lungo una serie di isole più piccole, le Nove Code; poi affronterà il gran salto: settecento chilometri di mare aperto, al di là dell’equatore. Allora vedremo la costa nordovest di Aquila, il cosiddetto Becco.
Animali.
Chiamare “dirigibile-passeggeri” questo mezzo di trasporto è un esercizio di semantica creativa. Si tratta di un enorme mercantile aereo, con ampie stive che basterebbero a trasportare sul mare l’intera città di Felix e avrebbero ancora posto per migliaia di balle di fibroplastica. Nel frattempo, il carico meno importante — noi passeggeri — si sistema come può. Accanto al portello di carico di poppa ho piazzato una branda e, sfruttando i miei bagagli e tre grandi casse d’attrezzature, ho ottenuto una comoda nicchia. Vicino a me c’è una famiglia di otto persone: lavoratori indigeni delle piantagioni che tornano da Keats al termine del viaggio biennale per acquisti personali. Non m’importa del rumore e della puzza dei loro maiali in gabbia, né degli strilli dei loro criceti da carne ma, certe notti, l’incessante e confuso chioccolio del loro povero e intontito pollaio è più di quanto riesca a sopportare.
Animali!
Giorno 11
Stasera ho cenato nel salone sopra il ponte panoramico, con il cittadino Heremis Denzel, professore in pensione di un piccolo collegio per piantatori nelle vicinanze di Endymion. Mi ha rivelato che, in realtà, la prima squadra scesa su Hyperion non aveva feticci animali: il nome ufficiale dei tre continenti non è Equus, Ursa e Aquila, ma Creighton, Allensen e Lopez. In ricordo, mi ha spiegato, di tre burocrati di medio livello dell’antico Servizio Esplorazioni. Meglio il feticcio animale!
Dopo cena. Sono da solo sul ponte panoramico e ammiro il tramonto. Il passaggio è riparato dai container di prua, perciò il vento è poco più d’una brezza lievemente salmastra. Sopra di me s’incurva il guscio arancione e verde del dirigibile. Ci troviamo fra le isole. Il mare è d’un azzurro intenso, con un substrato verdeggiante, l’esatto contrario del cielo. Molto in alto, alcuni cirri riflettono l’ultima luce del sole troppo piccolo di Hyperion e si accendono come corallo infuocato. L’unico rumore è il debole ronzio delle turbine elettriche. Trecento metri più in basso, l’ombra di un’enorme creatura marina simile a una manta si tiene al passo con il dirigibile. Un attimo fa un insetto o uccello della grandezza e del colore dei colibrì, ma con un metro d’ali esili come ragnatela, si è fermato a ispezionarmi prima di tuffarsi verso il mare.
Edouard, mi sento davvero solo, stanotte. Mi conforterebbe saperti in vita, ancora al lavoro nell’orto o a scrivere di sera nel tuo studio. Pensavo che i viaggi avrebbero rinfocolato la mia antica fede nell’idea di San Teilhard, il Dio in Cui s’uniscono il Cristo dell’Evoluzione, il Personale e l’Universale, l’En Haut e l’En Avant; ma non mi sta succedendo niente del genere.
Diventa buio. Divento vecchio. Provo qualcosa… non ancora rimorso… per il peccato di falsificazione delle prove negli scavi su Armaghast. Ma, Edouard, Eccellenza, se i manufatti scoperti sul pianeta avessero indicato davvero la presenza d’una civiltà d’orientamento cristiano, a seicento anni-luce da Vecchia Terra, quasi tremila anni prima che l’uomo lasciasse il suo mondo natale…
Fu un peccato così grave interpretare dei dati tanto ambigui in un modo che forse poteva significare la rinascita del cristianesimo nel giro di alcuni decenni?
Sì, certo. Però, ritengo, il peccato non consisteva nel pasticciare con i dati ma, ed è più grave, nel ritenere possibile la salvezza del cristianesimo. La Chiesa muore, Edouard. E non solo il nostro amato ramo dell’Albero Santo, ma tutti i suoi germogli, le vestigia, le malattie. L’intero Corpo di Cristo muore, con la stessa certezza di questo mio corpo mal usato, Edouard. Tu e io l’abbiamo saputo su Armaghast, dove il sole color sangue illuminava solo polvere e morte. L’abbiamo saputo in quella fresca e verdeggiante estate al Collegio, quando prendemmo i voti. L’abbiamo saputo, da ragazzi, nei tranquilli campi di gioco di Villefranche-sur-Saône. Lo sappiamo adesso.
La luce è svanita. Devo scrivere al tenue riflesso delle finestre del salone superiore. Le stelle sono disposte in curiose costellazioni. Il mar Medio, di notte, risplende di una fosforescenza verdastra e sovrannaturale. All’orizzonte, verso sudest, c’è una massa scura. Forse è una tempesta, forse la prossima isola della catena, la terza delle nove “code”. (In quale mitologia compare un gatto con nove code? Non lo so.)
Per amore dell’uccello visto poco fa, se uccello era, prego che davanti a noi ci sia un’isola, non una tempesta.
Giorno 28
Da otto giorni mi trovo a Port Romance e ho già visto tre morti.
Il primo, la sera del mio arrivo in città: un cadavere gettato a riva, una parodia d’uomo, enfiato e biancastro, arenato sulle secche fangose al di là della torre d’attracco. I bambini lo prendevano a sassate.
Il secondo è stato estratto, sotto i miei occhi, dai rottami di un negozio di apparecchiature a metano, nella zona più povera della città, poco distante dal mio albergo. Il cadavere, irriconoscibile per le ustioni e incartapecorito dal calore, aveva braccia e gambe strette al corpo, nella posizione da pugile che le vittime degli incendi assumono da tempo immemorabile. Ero digiuno dal giorno precedente e confesso con vergogna d’avere sentito l’acquolina in bocca, quando l’aria si riempì dell’intenso, grasso odore di carne bruciata.
Il terzo fu assassinato a meno di tre metri da me. Ero appena uscito dall’albergo, sul labirinto di tavole impiastrate di fango che in questa miserabile città fungono da marciapiede, quando risuonarono degli spari e l’uomo che mi precedeva di qualche passo cadde come se fosse scivolato, ruotò dalla mia parte con un’espressione perplessa e giacque su un fianco, nella fanghiglia e nei liquami.
Era stato colpito tre volte, con una sorta d’arma a proiettile. Due pallottole l’avevano centrato al petto, l’altra appena sotto l’occhio sinistro. Per quanto sembri incredibile, respirava ancora quando mi accostai a lui. Senza pensarci, tirai fuori dalla borsa la stola, cercai a tentoni la boccetta d’acqua santa che portavo con me da tanto tempo e gli somministrai l’estrema unzione. Nessuno, nella folla che si radunava intorno a noi, ebbe da ridire. L’uomo si agitò una volta sola, si schiarì la gola come se stesse per parlare, e morì. La folla si allontanò prima ancora che rimuovessero il cadavere.
L’uomo era di mezz’età, biondastro, un poco sovrappeso. Non aveva documenti, nemmeno la carta universale né un comlog. Nella tasca, sei monete d’argento.
Per chissà quale ragione, decisi di restare accanto al cadavere. Il medico, un uomo tozzo e cinico, mi permise di assistere all’autopsia di legge. Sospetto che morisse dalla voglia di fare quattro chiacchiere.