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In quella parete dell’Alveare c’erano centinaia di balconi identici, tutti deserti. Il più vicino distava venti metri. Erano quel genere di accessorio che gli agenti immobiliari indicano come extra (Dio solo sa quanto Johnny pagasse di supplemento, per una stanza sull’esterno); ma ogni balcone era del tutto impraticabile per via della forte corrente d’aria che si precipitava verso i ventilatori in alto e portava con sé la solita polvere e i detriti, oltre all’eterno odore di benzina e ozono dell’Alveare.

Misi in tasca la pistola e andai a controllare Johnny.

Il taglio andava dall’attaccatura dei capelli a un sopracciglio: era superficiale, ma brutto. Johnny si era alzato a sedere, mentre tornavo dal bagno portando un tampone sterile che poi premetti sulla ferita. «Cos’è successo?» domandai.

«Due uomini… aspettavano in camera da letto, quando sono entrato. Avevano evitato l’allarme passando dalla porta del balcone.»

«Merita un rimborso della tassa sulla sicurezza. E poi?»

«Abbiamo lottato. Sembrava volessero trascinarmi verso la porta. Uno aveva una siringa, ma sono riuscito a fargliela cadere di mano.»

«Cosa li ha fatti scappare?»

«Ho azionato l’allarme interno.»

«Ma non l’allarme di sicurezza dell’Alveare?»

«No. Non volevo coinvolgere la sicurezza.»

«Chi l’ha colpita?»

Johnny sorrise, imbarazzato. «Io. Quando mi hanno lasciato andare, li ho inseguiti. Ho inciampato nel comodino.»

«Una zuffa mediocre da una parte e dall’altra» commentai. Accesi la luce, esaminai il tappeto e alla fine trovai la siringa: era rotolata sotto il letto.

Johnny la fissò come se fosse una vipera.

«Cosa ne pensa?» dissi. «Ancora AIDS II?»

Scosse la testa.

«Conosco un posto dove farla analizzare» dissi. «Secondo me, è un semplice calmante ipnotico. Volevano solo che lei andasse con loro… non volevano ucciderla.»

Johnny scostò il tampone. Fece una smorfia. Il sangue colava ancora. «Perché dovrebbero rapire un cìbrido?»

«Me lo dica lei. Comincio a pensare che il suo cosiddetto assassinio sia stato solo un tentativo di rapimento malriuscito.»

Di nuovo Johnny scosse la testa.

Chiesi: «Uno di loro aveva il codino?»

«Non so. Portavano dei berretti e delle maschere osmotiche.»

«Uno dei due era abbastanza alto da poter essere un Templare o abbastanza robusto da poter essere un lusiano?»

«Un Templare?» Johnny sembrò sorpreso. «No. Uno era di altezza media. Quello con la siringa poteva anche essere un lusiano. Era molto robusto.»

«E così lei avrebbe inseguito a mani nude un delinquente lusiano! Ha per caso dei bioprocessori o impianti migliorativi di cui sono all’oscuro?»

«No. Ero solo folle di rabbia.»

Lo aiutai a mettersi in piedi. «E così le IA si arrabbiano pure?»

«Io, sì.»

«Venga. Conosco una clinica automatizzata a prezzi scontati. Poi si fermerà da me per un po’.»

«Da lei? E perché?»

«Perché adesso non ha più bisogno d’un investigatore. Ha fatto carriera: le serve una guardia del corpo.»

Nello schema zonale dell’Alveare il mio alloggio non era registrato come appartamento; ero subentrata in un loft ristrutturato nel sottotetto, di proprietà d’un amico caduto nelle grinfie degli usurai. Il mio amico aveva deciso in età matura di emigrare in una delle colonie periferiche e io avevo fatto un buon affare, occupando un locale nello stesso corridoio del mio ufficio, solo un chilometro più avanti. L’ambiente era poco raffinato, a volte il rumore proveniente dai moli di carico soffocava la conversazione, ma mi forniva uno spazio almeno dieci volte superiore a quello di un normale minialloggio e mi permetteva di usare in casa i pesi e l’attrezzatura d’allenamento.

A essere sinceri, Johnny sembrò impressionato quando vide il loft, e io avrei dovuto prendermi a calci per essermi compiaciuta della sua reazione: la mossa seguente sarebbe stata quella di mettermi rossetto e fondotinta per quel cìbrido!

«Dunque, perché vive su Lusus?» gli domandai. «La maggior parte degli extraplanetari trova insopportabile la sua gravità e monotono il suo panorama. Inoltre la sua ricerca si svolge nella biblioteca di Vettore Rinascimento. Perché ha scelto questo mondo?»

Mi ritrovai a guardarlo e ad ascoltarlo con grande attenzione. Aveva capelli lisci in cima, con la riga in mezzo, che scendevano fino al colletto in riccioli castano rossicci. Aveva l’abitudine di parlare tenendo la guancia appoggiata alla mano. Fui colpita dall’idea che il suo modo di esprimersi era in realtà quello di chi ha imparato alla perfezione una lingua nuova, e non conosce le pigre scorciatoie di chi la usa dalla nascita. E in sottofondo c’era l’accenno di una cadenza ritmica che mi ricordava le sfumature di un ladro acrobata da me conosciuto, originario di Asquith, un mondo della Rete, tranquillo e arretrato, colonizzato da immigranti della Prima Espansione, giunti da quelle che un tempo erano le Isole Britanniche.

«Ho vissuto su molti mondi» disse Johnny. «Il mio scopo è quello di osservare.»

«Come poeta?»

Scosse la testa, trasalì, si toccò con cautela i punti. «No. Non sono un poeta. Lui lo era.»

Nonostante le circostanze, in Johnny c’erano un’energia e una vitalità che avevo riscontrato in troppo pochi uomini. E difficile da descrivere, ma ho visto locali pieni di personaggi importanti dove le posizioni cambiavano in modo da orbitare intorno a una personalità come la sua. Non si trattava semplicemente della sua reticenza e della sua sensibilità: Johnny sembrava emanare una sorta d’aura, anche quando si limitava a guardare.

«E lei perché vive qui?» mi chiese.

«Ci sono nata.»

«Sì, ma ha trascorso l’infanzia su Tau Ceti Centro. Suo padre era senatore.»

Non risposi.

«Molti si aspettavano che entrasse anche lei in politica» disse. «È stato il suicidio di suo padre, a dissuaderla?»

«Non è stato un suicidio.»

«No?»

«Tutti i servizi giornalìstici e le inchieste l’hanno definito suicidio» dissi, con voce atona. «Sbagliavano. Mio padre non si sarebbe mai tolto la vita.»

«Allora è stato un omicidio.»

«Sì.»

«Nonostante il fatto che non ci fosse un movente, nessuna traccia di un presunto colpevole?»

«Sì.»

«Capisco» disse Johnny. La luce giallastra delle lampade sul molo di carico entrava dai vetri impolverati e gli faceva risplendere i capelli come se fossero di rame nuovo. «Le piace fare l’investigatrice?»

«Quando ho successo» risposi. «Ha fame?»

«No.»

«Allora riposiamoci un poco. Prenda pure il lettino.»

«Le accade sovente di avere successo nelle indagini?»

«Vedremo domani.»

Al mattino Johnny andò su Vettore Rinascimento all’incirca alla solita ora; attese un momento nella piazza e poi si teleportò nel Museo degli Antichi Coloni, su Sol Draconis Septem. Da lì balzò nel terminex principale di Nordholm e poi nel mondo dei Templari, Bosco Divino.

Avevamo stabilito in anticipo il programma; lo aspettavo su Vettore Rinascimento, all’ombra del colonnato.

L’uomo con il codino era il terzo della fila, dietro Johnny. Era senza dubbio lusiano: con quel pallore dovuto all’Alveare, quella muscolatura, quella massa corporea e quel modo arrogante di muoversi, avrebbe potuto essere un mio fratello perduto da tempo.

Non guardò mai Johnny ma notai subito che quando il cìbrido si diresse verso i portali esterni parve sorpreso. Rimasi indietro e vidi solo di sfuggita la sua carta, ma avrei scommesso anche la camicia che si trattava di un tracciatore.