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Codino, cinquanta metri più avanti, si guardava indietro da sopra la spalla. L’altro teleporter era vicino, ma la tempesta rendeva invisibile e inaccessibile qualsiasi cosa non si trovasse sulla pista. Considerata la gravità, questo era il sentiero dell’escursione più breve e tornava indietro dopo appena duecento metri. Sentivo l’ansimare di Codino, mentre mi avvicinavo. Correvo con facilità: impossibile che riuscisse a precedermi al teleporter successivo. Sul sentiero non c’erano turisti e per il momento nessuno ci dava la caccia. Mi dissi che non sarebbe stato un brutto posto per interrogarlo.

Codino era a trenta metri dal portale d’uscita; si girò, si lasciò cadere su un ginocchio e puntò una pistola a energia. Il primo colpo fu corto, forse per via dell’insolito peso dell’arma nella gravità di Sol Draconis, ma abbastanza vicino da lasciare a un metro da me uno sfregio bruciacchiato di passerella scorificata e di ghiaccio fuso. Codino aggiustò la mira.

Mi infilai nel campo di contenimento; mi aprii la strada a spallate per vincerne la resistenza elastica e barcollai fra cumuli di neve che mi arrivavano alla vita. L’aria gelida mi bruciò i polmoni; nel giro di qualche secondo, la neve spinta dal vento mi ricoprì il viso e le braccia nude. Codino mi cercava, dall’interno del sentiero illuminato, ma la foschia della tormenta lavorava a mio favore, adesso, mentre avanzavo nella sua direzione fra cumuli di neve.

Codino spinse nel campo di contenimento testa, spalle e braccio destro, e strinse gli occhi sotto il fuoco di sbarramento delle particelle di ghiaccio che gli coprirono subito le guance e la fronte. Il suo secondo colpo fu alto: sentii il calore della saetta, quando mi passò sopra la testa. Adesso ero a meno di dieci metri da lui. Regolai lo storditore sull’ampiezza massima e lo azionai senza sollevare la testa dal mucchio di neve in cui mi ero lasciata cadere.

Codino mollò nella neve la pistola a energia e cadde all’indietro, al di là del campo di contenimento.

Feci un grido di trionfo che si perse nel ruggito del vento e barcollai verso la parete del campo. Ora mani e piedi mi sembravano cose staccate da me, al di là del dolore provocato dal freddo. Le guance e le orecchie mi bruciavano. Scacciai dalla mente la paura di congelare e mi lanciai contro il campo.

Era un campo di terza classe, progettato per tener fuori gli elementi e cose gigantesche come gli spettri artici, ma consentire ai turisti o ai Templari in missione il rientro sul sentiero; però, indebolita dal freddo, mi ritrovai a battere per mezzo secondo contro la parete, come una mosca contro la plastica, scivolando sulla neve e sul ghiaccio. Alla fine mi lanciai in un tuffo, atterrai goffamente e mi tirai dietro le gambe.

L’improvviso tepore del sentiero mi fece tremare in maniera incontrollabile. Schegge di ghiaccio caddero per terra mentre mi costringevo ad alzarmi in ginocchio e poi in piedi.

Codino, con il braccio destro penzoloni come se fosse rotto, fece di corsa gli ultimi cinque metri che lo separavano dal portale d’uscita. Sapevo che razza di dolore provoca uno storditore neurale e non lo invidiai. Codino si guardò indietro una volta sola, mentre mi lanciavo al suo inseguimento; poi varcò il portale.

Patto-Maui. L’aria tropicale profumava d’oceano e di vegetazione. Il cielo era di un azzurro Vecchia Terra. Vidi immediatamente che la pista portava su una delle poche isole mobili che i Templari avevano salvato all’addomesticamento dell’Egemonia. Era un’isola grande, forse mezzo chilometro da un capo all’altro; dal portale d’accesso, su una larga tolda che circondava il tronco con la vela principale, vedevo le ampie foglie-vela gonfiarsi nel vento e le liane-timone color indaco lasciare una lunga scia. Il portale d’uscita si trovava a soli quindici metri, in fondo a una scalinata; ma vidi subito che Codino si era diretto di corsa dall’altra parte, lungo il sentiero principale, verso un gruppo di capanne e di banchi di vendita sul bordo dell’isola.

Solo lì, a metà del giro d’escursione, era concesso agli edifici umani di accogliere i viaggiatori stanchi che acquistavano rinfreschi o souvenir a beneficio della Confraternita Templare. Cominciai a scendere in fretta l’ampia scalinata verso il sentiero inferiore: tremavo ancora e i miei vestiti s’inzuppavano rapidamente con lo sciogliersi della neve. Perché Codino correva verso quel gruppetto di gente laggiù?

Notai l’esposizione di vistosi tappeti a noleggio e capii. In molti mondi della Rete le stuoie Hawking erano illegali, ma su Patto-Maui erano ancora una tradizione a causa della leggenda di Siri: lunghi meno di due metri e larghi uno, gli antichi giocattoli erano allineati in attesa di portare i turisti sul mare aperto e poi di nuovo sull’isola mobile. Se Codino arrivava a un tappeto volante… Mi lanciai a tutta velocità, lo raggiunsi a qualche metro dall’esposizione dei tappeti e lo urtai subito sotto le ginocchia. Rotolammo dalla parte dei banchi di vendita. I pochi turisti strillarono e si sparpagliarono.

Mio padre mi ha insegnato una cosa che ogni bambino ignora a suo rischio: un grosso può sempre picchiare un piccolo. Nel nostro caso, eravamo quasi pari. Con una torsione Codino si liberò, saltò in piedi e assunse la posizione a braccia tese e,dita allargate tipica dei combattimenti in stile orientale. Adesso avremmo visto chi era il migliore.

Codino andò a segno per primo, fintando con la sinistra un colpo di punta a dita tese e vibrando invece un calcio laterale. Tentai di schivarlo, ma non riuscii a evitare la botta, abbastanza forte da intorpidirmi spalla e braccio sinistri.

Codino danzò all’indietro. Lo seguii. Vibrò un pugno di destro. Parai. Con la sinistra colpì di taglio. Bloccai con l’avambraccio destro. Codino arretrò, girò su se stesso, menò un fendente di piede. Lo schivai, gli afferrai al volo la gamba e lo sbattei sulla sabbia.

Codino balzò in piedi. Lo atterrai con un corto gancio sinistro. Lui rotolò lontano e si alzò in ginocchio. Con un calcio lo colpii dietro l’orecchio sinistro, ma non abbastanza forte da fargli perdere conoscenza.

Era fin troppo sveglio, mi accorsi un attimo dopo, mentre eludeva la mia guardia e tentava un colpo di punta al cuore. Riuscì solo a farmi un livido nei muscoli sotto il seno destro. Gli diedi un pugno sui denti con tutta la mia forza; schizzando sangue, rotolò fino alla linea di galleggiamento e rimase immobile. Alle nostre spalle, la gente correva verso il portale d’uscita gridando di chiamare la polizia.

Afferrai per la coda il potenziale assassino di Johnny, lo trascinai al limitare dell’isola e gli tuffai la faccia nell’acqua finché non vidi che rinveniva. Allora lo rigirai e lo sollevai afferrandolo per la camicia lacera e macchiata. Forse avevamo un paio di minuti, prima che arrivasse qualcuno.

Codino mi fissò con gli occhi vitrei. Gli diedi una scrollata e me lo tirai più vicino. «Stammi a sentire, amico» dissi a bassa voce. «Adesso faremo quattro chiacchiere, brevi ma sincere. Per cominciare, dimmi chi sei e perché infastidisci il tizio che inseguivi.»

Sentii l’impulso di corrente prima ancora di vedere l’azzurro. Con un’imprecazione lo lasciai andare. Subito un nimbo elettrico sembrò circondare l’intero corpo di Codino. Feci un salto indietro, ma non prima che mi si rizzassero i peli e che l’allarme del comlog si mettesse a squillare. Codino aprì la bocca per urlare e vidi l’azzurro all’interno, simile a un effetto speciale mal riuscito. Il davanti della camicia sfrigolò, si annerì, prese fuoco. Sul petto, sotto la stoffa, spuntarono delle chiazze azzurre, come su un’antica pellicola che si fonde per il calore. Le chiazze si allargarono, si unirono, si allargarono ancora. Nella cavità toracica, gli organi si fusero nella fiamma azzurrina. Codino gridò di nuovo, mentre gli occhi e i denti gli cadevano nel fuoco azzurro.