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Feci un altro passo indietro.

Ora Codino bruciava e le fiamme rosso arancione coprivano il bagliore azzurro. La carne esplose come se le ossa avessero preso fuoco. Nel giro d’un minuto, era la caricatura fumante di un uomo; un corpo rattrappito e rimpicciolito, come se fosse stato vittima di un incendio. Mi girai e mi portai la mano alla bocca. Scrutai il viso dei pochi spettatori, per capire se quello che era successo si poteva attribuire a uno di loro. Incrociai sguardi attoniti e spaventati. Più in alto, dal teleporter, sbucarono all’improvviso alcune guardie della sicurezza in uniforme grigia.

Maledizione! Mi guardai intorno. Le vele-albero ondeggiavano e si gonfiavano. Ragnatelidi sfolgoranti, belli anche di giorno, svolazzavano fra la vegetazione tropicale dalle cento sfumature. La luce del sole danzava sull’oceano azzurro. La strada verso tutti e due i portali era bloccata. La guardia di sicurezza che guidava il gruppetto impugnava un’arma.

In tre passi arrivai alla prima stuoia Hawking, cercando di ricordare, in base alla mia unica esperienza di vent’anni prima, come si attivavano le fibre di volo. Disperata, diedi qualche colpo al disegno.

Il tappeto volante s’irrigidì e si sollevò di dieci centimetri sopra la spiaggia. Ora sentivo le grida degli uomini della sicurezza che si facevano largo tra la folla. Una donna con l’abbigliamento vistoso di Rinascimento Minore tese il braccio nella mia direzione. Saltai giù dal tappeto, afferrai gli altri sette e tornai a bordo del mio. Riuscii a stento a trovare i disegni di volo, sotto quel mucchio: smanacciai i comandi di partenza finché il tappeto non si alzò bruscamente in volo e quasi mi sbatté per terra.

Cinquanta metri più avanti e trenta metri più in alto, gettai a mare gli altri tappeti e mi girai a guardare che cosa stava succedendo sulla spiaggia. Alcune guardie in uniforme grigia circondavano i resti bruciati. Un’altra puntava nella mia direzione una verga argentata.

Delicati aghi di dolore mi formicolarono nel braccio, nelle spalle e nel collo. Le palpebre mi si abbassarono di colpo. Quasi scivolai giù dal tappeto, sulla mia destra. Con la sinistra afferrai l’orlo opposto, mi lasciai cadere in avanti e con dita che sembravano di legno toccai il disegno di salita. Mentre salivo di nuovo, mi frugai nella manica destra per prendere lo storditore. La fondina da polso era vuota.

Un minuto più tardi mi misi a sedere e mi liberai di gran parte degli effetti della scarica, anche se le dita ancora mi bruciavano e avevo un feroce mal di testa. L’isola mobile, molto indietro, rimpiccioliva a ogni secondo. Un secolo prima, l’isola sarebbe stata guidata dai branchi di delfini portati originariamente lì durante l’Egira, ma il programma di pacificazione dell’Egemonia durante la Rivolta Siri aveva ucciso gran parte dei mammiferi acquatici e ora le isole vagavano senza una meta precisa, con il loro carico di turisti della Rete e di proprietari di stazioni di villeggiatura.

Controllai l’orizzonte in cerca di un’altra isola, della traccia di una delle rare estensioni di terraferma. Niente. O, meglio, cielo azzurro, oceano senza confini, morbide pennellate di nubi lontano a ovest. O era est?

Sganciai dalla cintura il comlog e composi l’ordine d’accesso generico alla sfera dati, ma mi bloccai subito. Se le autorità mi avevano seguito fin qui, come prossimo passo avrebbero localizzato la mia posizione e mandato uno skimmer o un VEM della sicurezza. Non ero certa che potessero rintracciare il mio comlog durante il collegamento, ma non vedevo motivo di facilitare loro il compito. Misi in posizione d’attesa la richiesta d’accesso e mi guardai di nuovo intorno.

Ottima mossa, Brawne: gironzolare a duecento metri d’altezza, su un tappeto volante vecchio di tre secoli, con Dio sa quante, o quanto poche, ore di carica nei fili di volo, a mille e forse più chilometri da una terra di qualsiasi genere! E persa. Magnifico.

Incrociai le braccia e mi sedetti a riflettere.

«Signora Lamia?» La voce dolce di Johnny rischiò di farmi cadere dal tappeto.

«Johnny?» Fissai il comlog. Era sempre in posizione d’attesa. L’indicatore generale di frequenza di trasmissione era spento. «Johnny, è lei?»

«Certo. Pensavo che non si sarebbe più decisa ad accendere il comlog.»

«Come ha fatto a rintracciarmi? Su quale frequenza chiama?»

«Non ci pensi. Dov’è diretta?»

Con una risata gli risposi che non ne avevo la minima idea. «Può aiutarmi?»

«Aspetti.» Una pausa brevissima. «Bene, la vedo sullo schermo di uno dei satelliti meteorologici… una baracchetta davvero primitiva. Per fortuna il suo tappeto ha un radarfaro passivo.»

Fissai il tappeto, l’unica cosa fra me e una lunga caduta in mare. «Davvero? Gli altri possono rintracciarmi?»

«Potrebbero, ma ho schermato questo particolare segnale. Allora, dove vuole andare?»

«A casa.»

«Non sono sicuro che sia una mossa saggia, dopo la morte del… ah… della nostra persona sospetta.»

Strinsi gli occhi, di colpo diffidente. «E lei come lo sa? Io non le ho detto nulla.»

«Sia seria, signora Lamia. Le frequenze della sicurezza non fanno che parlarne, su sei mondi. Hanno una buona descrizione di lei.»

«Merda.»

«Infatti. Allora, dove vuole andare?»

«Lei dove si trova? Nel mio alloggio?»

«No. L’ho lasciato quando ho sentito parlare di lei sulle frequenze della sicurezza. Sono… nelle vicinanze di un teleporter.»

«Proprio dove mi farebbe comodo trovarmi.» Mi guardai intorno di nuovo. Oceano, cielo, una traccia di nubi. Almeno, niente flotta di VEM.

«D’accordo» disse la voce incorporea di Johnny. «C’è un multi-portale motorizzato della FORCE a meno di dieci chilometri dalla sua posizione attuale.»

Mi schermai gli occhi con una mano e feci un completo giro d’orizzonte. «Col cavolo che c’è» dissi. «Non so quanto sia lontano da qui l’orizzonte, ma ci saranno almeno quaranta chilometri e non vedo un tubo.»

«Base sommergibile» disse Johnny. «Si regga forte. Prendo io i comandi.»

Il tappeto sbandò di nuovo, fece una picchiata e poi planò a velocità costante. Mi aggrappai con tutt’e due le mani e resistetti all’impulso di urlare.

«Sommergibile?» gridai per superare il frastuono del vento. «A che distanza?»

«Intende a che profondità?»

«Sì!»

«Otto braccia.»

Cambiai in metri l’antica unità di misura. Questa volta strillai davvero. «Sono circa quattordici metri sotto la superficie!»

«Dove si aspetta che si trovi, un sommergibile?»

«E lei cosa diavolo si aspetta che faccia? Che trattenga il fiato?» L’oceano si precipitò verso di me.

«Non è necessario» disse il comlog. «Il tappeto ha un primitivo campo antiurto. Dovrebbe resistere facilmente, per sole otto braccia. Si regga forte, prego.»

Mi ressi.

Johnny mi stava aspettando. Il sommergibile, buio e umido del sudore dell’abbandono, conteneva un teleporter di tipo militare che non avevo mai visto. Provai un gran sollievo quando uscii nella luce del sole di una via cittadina dove Johnny mi aspettava.

Gli raccontai che cos’era accaduto con Codino. Percorremmo vie deserte fra edifici vecchi. L’azzurro chiaro del cielo svaniva nella sera. Non c’era nessuno in vista. «Ehi» dissi, fermandomi. «Dove siamo?» Quel mondo somigliava in modo incredibile alla Terra, ma il cielo, la gravità, la consistenza del posto non mi ricordavano niente che avessi già visitato.

Johnny sorrise. «Provi a indovinare. Camminiamo ancora un po’.»

Mentre percorrevamo un ampio viale, vedemmo delle rovine alla nostra sinistra. Mi fermai a guardarle. «Quello è il Colosseo» dissi. «Il Colosseo romano di Vecchia Terra.» Guardai gli edifici invecchiati, le vie acciottolate, gli alberi che si muovevano lievemente nella dolce brezza. «Questa è la ricostruzione di una città della Vecchia Terra, l’antica Roma» dissi, cercando di non far vedere che ero stupita. «Nuova Terra?» Ma capii subito che non era quel mondo. In diverse occasioni ero stata su Nuova Terra: le sfumature del cielo, gli odori, la gravità non erano gli stessi.