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Johnny scosse la testa. «Non si trova nella Rete.»

Mi fermai. «Impossibile.» Per definizione, ogni mondo a portata di teleporter si trovava nella Rete.

«Eppure non è nella Rete.»

«Dove, allora?»

«Vecchia Terra.»

Riprendemmo a camminare. Johnny indicò altre rovine. «Il Foro.» Mentre scendevamo una lunga scalinata, disse: «Più avanti c’è Piazza di Spagna, dove passeremo la notte.»

«Vecchia Terra» ripetei. Il mio primo commento in venti minuti. «Viaggio nel tempo?»

«Questo è impossibile, signora Lamia.»

«Un parco a tema, allora?»

Johnny rise. Era una risata piacevole, non impacciata, facile. «Può darsi. In realtà non ne conosco lo scopo né la funzione. È… è un analogo.»

«Un analogo.» Socchiusi gli occhi per guardare il sole rosso al tramonto, appena visibile in fondo alla stretta via. «Assomiglia alle olografie della Vecchia Terra. Mi dà la sensazione giusta, anche se non ci sono mai stata.»

«È molto accurato.»

«Dove si trova? Cioè, intorno a quale stella?»

«Non conosco la sigla. Una stella nell’ammasso Ercole.»

Riuscii a non ripetere le sue parole, ma mi fermai e mi sedetti sullo scalino. Con il motore Hawking l’umanità aveva esplorato, colonizzato e collegato via teleporter pianeti nel raggio di molte migliaia di anni-luce. Ma nessuno aveva tentato di raggiungere i soli che esplodevano nel Nucleo. Avevamo oltrepassato solo un braccio della spirale. L’ammasso Ercole.

«Perché il TecnoNucleo ha costruito una riproduzione di Roma nell’ammasso Ercole?» domandai.

Johnny si sedette accanto a me. Guardammo insieme uno stormo di piccioni alzarsi in volo e roteare sopra i tetti. «Non lo so, signora Lamia. Sono molte, le cose che non ho imparato… un po’ perché finora non hanno suscitato il mio interesse.»

«Brawne» dissi.

«Prego?»

«Chiamami Brawne.»

Johnny sorrise e piegò di lato la testa. «Grazie, Brawne. C’è una cosa, però. Non credo che sia una ricostruzione della sola Roma. Ma di tutta la Vecchia Terra.»

Posai le mani sul gradino caldo di sole. «Di tutta la Vecchia Terra? Di tutti i continenti, di tutte le città?»

«Ne sono convinto. Non sono mai stato fuori dell’Italia e dell’Inghilterra, se si esclude il viaggio per andare dall’una all’altra; ma credo che l’analogo sia completo.»

«Perché, per l’amor di Dio?»

Johnny annuì lentamente. «Forse è proprio questa la ragione. Perché non andiamo dentro, ceniamo e continuiamo a parlarne? Può darsi che abbia a che fare con i due che hanno tentato di uccidermi e con i loro motivi.»

“Dentro” era un appartamento di una grande casa ai piedi della scalinata di marmo. Le finestre guardavano su quella che Johnny chiamava “la piazza”; con lo sguardo potevo risalire la scalinata fino a una grande chiesa giallomarrone e scendere fino alla piazza in cui una fontana a forma di barca faceva zampillare l’acqua nella quiete della sera. Johnny disse che la fontana era opera del Bernini, ma quel nome non mi disse niente.

La stanze erano piccole, ma avevano un soffitto alto e mobili rozzi ma riccamente intagliati, di un’epoca che non riconobbi. Non c’era segno di elettricità, né di apparecchiature moderne. La casa non reagì alla mia voce, né alla porta esterna né a quella dell’appartamento al piano superiore. Mentre il crepuscolo scendeva sulla piazza e sulla città, l’unica luce che entrava dalle alte finestre era quella di alcuni lampioni a gas, o qualche altro combustibile primitivo.

«Escono dal passato della Vecchia Terra» dissi, toccando gli spessi cuscini. Alzai la testa: di colpo capii. «Keats morì in Italia. All’inizio del Diciannovesimo o del Ventesimo secolo. Siamo… in quell’epoca.»

«Sì. Inizio del Diciannovesimo secolo. 1821, per l’esattezza.»

«L’intero pianeta è un museo?»

«Oh, no. In zone diverse ci sono epoche diverse, ovviamente. Dipende dall’analogo che si vuole ottenere.»

«Non capisco.» Eravamo passati in una stanza piena di mobili pesanti. Mi sedetti su un divano bizzarramente intagliato, accanto alla finestra. Un velo di luce dorata toccava ancora la guglia della chiesa marrone chiaro in cima alla scalinata. I piccioni roteavano, bianchi, nel cielo azzurro. «Ci sono milioni di persone… di cìbridi… su questa falsa Vecchia Terra?»

«Non credo» rispose Johnny. «Solo il numero necessario a questo particolare progetto analogico.» Si accorse che ancora non capivo e fece un profondo respiro prima di continuare. «Quando mi… mi svegliai qui, c’erano analoghi cìbridi di Joseph Severn, del dottor Clark, della padrona di casa Anna Angeletti, del giovane sottotenente Elton e di alcuni altri. Bottegai italiani, il proprietario della trattoria in fondo alla piazza che ci portava il pranzo, passanti, questo genere di persone. Una ventina, al massimo.»

«E a loro cos’è successo?»

«Probabilmente sono stati… riciclati. Come l’uomo con il codino.»

«Codino…» Di colpo fissai Johnny, nella stanza sempre più buia. «Era un cìbrido?»

«Senza dubbio. L’autodistruzione che mi hai descritto è proprio il modo in cui mi libererei di questo cìbrido, se fosse necessario.»

La mia mente correva all’impazzata. Ero stata davvero sciocca, avevo imparato ben poco. «Allora a tentare di ucciderla è stata un’altra IA.»

«Sembrerebbe di sì.»

«Perché?»

Johnny mosse le mani. Forse per cancellare quel quanto di conoscenza morto con il mio cìbrido. Qualcosa che io avevo appreso solo di recente, e che l’altra IA… o le altre IA sapevano sarebbe scomparso con il crollo del mio sistema.

Mi alzai, andai avanti e indietro, mi fermai alla finestra. Ora l’oscurità scendeva sul serio. Nella stanza c’erano alcuni lumi, ma Johnny non si mosse per accenderli e io preferivo la penombra. Rendeva ancor meno reale l’irrealtà di quello che sentivo. Guardai nella stanza da letto. Le finestre esposte a ovest lasciavano entrare l’ultima luce. Le lenzuola brillavano, bianche. «Sei morto qui» dissi.

«Lui morì in quella stanza» rispose Johnny. «Non sono lui.»

«Ma hai i suoi ricordi.»

«Sogni per metà dimenticati. Ci sono dei vuoti.»

«Ma sai che cosa sentiva

«Ricordo quel che il progettista pensava che lui sentisse.»

«Dimmelo.»

«Eh?» La pelle di Johnny era pallidissima, nella luce scarsa. I corti riccioli sembravano neri.

«Cosa si prova a morire. Cosa si prova a rinascere.»

Johnny me lo spiegò, con una voce molto bassa, quasi melodiosa, che scivolava a volte in un inglese troppo antico per essere capito, ma molto più bello all’orecchio della lingua ibrida che parliamo al giorno d’oggi.

Mi spiegò che cosa significava essere un poeta ossessionato dalla perfezione, più duro, verso le proprie poesie, perfino dei critici più maligni. E i critici erano stati spietati. Avevano messo in ridicolo le sue poesie, le avevano definite insulse e prive d’originalità. Troppo povero per sposare la donna che amava, aveva prestato del denaro a suo fratello in America, perdendo così l’ultima possibilità di sicurezza economica… e poi provò la breve gloria della piena maturazione della sua vena poetica, proprio quando cadeva preda dello stesso “mal sottile” che aveva già reclamato sua madre e il fratello Tom. Poi era partito per l’esilio in Italia, secondo l’opinione generale “per motivi di salute”, pur sapendo che significava una morte penosa in solitudine all’età di ventisei anni. Johnny mi spiegò la sofferenza nel vedere la scrittura di Fanny sulle lettere che trovava troppo doloroso aprire; la fedeltà del giovane artista Joseph Severn, scelto come compagno di viaggio di Keats da “amici” che alla fine avevano abbandonato il poeta; descrisse come Severn avesse assistito il moribondo e fosse rimasto con lui negli ultimi giorni. Le emorragie notturne, i salassi del dottor Clark e le sue prescrizioni a base di “esercizio fisico e aria buona”, la finale disperazione religiosa e personale che aveva condotto Keats a chiedere che sulla sua tomba fosse scritto questo epitaffio: “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto sull’acqua”.