Solo la fioca luce della via metteva in rilievo le alte finestre. La voce di Johnny sembrava galleggiare nell’aria profumata di notte. Parlò del risveglio dopo la morte nel letto in cui era morto, ancora assistito dal fedele Severn e dal dottor Clark; spiegò che ricordava di essere il poeta John Keats così come ci si ricorda della propria identità in un sogno che rapidamente svanisce, pur sapendo per tutto il tempo di essere qualcosa d’altro.
Parlò del seguito dell’illusione, del viaggio di ritorno in Inghilterra, della riunione con la famiglia di Fanny che non era Fanny, del quasi collasso mentale generato dall’incontro. Parlò della sua incapacità a scrivere altre poesie, del crescente estraniamento dagli impostori cìbridi, della sua ritirata in qualcosa che sembrava catatonia combinata con “allucinazioni” della sua vera esistenza come IA nel quasi incomprensibile (per un poeta del XIX secolo) TecnoNucleo, del crollo finale dell’illusione e dell’abbandono del “Progetto Keats”.
«In verità» disse «l’intera, malefica sciarada m’indusse solo a pensare al brano d’una lettera da me scritta… da lui scritta… al fratello George, qualche tempo prima della malattia. Keats scrisse:
Possono non esistere esseri superiori divertiti da qualcuna delle graziose, per quanto istintive, attitudini in cui cade la mia mente, mentre considero la prontezza d’un Ermellino o il timore d’un Cervo? Per quanto una zuffa per strada sia cosa da odiare, le energie che mostra sono belle. Per un essere superiore, i nostri ragionamenti forse assumono lo stesso tono… per quanto errati, forse sono belli. Ed è questa, la vera essenza della poesia.
«Ritieni che il “Progetto Keats” fosse male?» domandai.
«Tutto ciò che inganna è male, credo.»
«Forse sei John Keats più di quanto non ti piaccia ammettere.»
«No. L’assenza d’istinto poetico si è manifestata in altri modi, anche nel corso delle illusioni più elaborate.»
Guardai i contorni scuri degli oggetti nella casa buia. «Le IA sanno che siamo qui?»
«Probabile. Quasi certo. Non posso andare in nessun posto senza che il TecnoNucleo mi rintracci e mi segua. Ma siamo riusciti a sfuggire alle autorità della Rete e ai delinquenti, no?»
«Però adesso sai che ad assalirti è stato qualcuno… qualche intelligenza nel TecnoNucleo.»
«Sì, ma solo nella Rete. Una simile violenza non sarebbe tollerata, nel Nucleo.»
Dalla strada provenne un rumore. Un piccione, mi augurai. Il vento che spingeva spazzatura sui ciottoli, forse. Dissi: «Come reagirà il TecnoNucleo alla mia presenza qui?».
«Non ne ho idea.»
«Sarà certo un posto segreto.»
«È qualcosa che… che considerano irrilevante per l’umanità.»
Scossi la testa. Un gesto inutile, nel buio. «Creare di nuovo la Vecchia Terra… riportare in vita tante persone sotto forma di cìbridi su questo mondo ricreato… IA che uccidono altre IA… irrilevante!» Scoppiai a ridere, ma riuscii a dominare la risata. «Gesù pianse, Johnny.»
«Quasi certamente.»
Mi accostai alla finestra, senza curarmi di offrire un bersaglio a chi si trovasse nella via sottostante, e mi frugai addosso alla ricerca di una sigaretta. Erano ancora umide per l’inseguimento sotto la tempesta di neve; ma una si accese, quando la sfregai. «Johnny, poco fa, quando hai detto che l’analogo della Vecchia Terra era completo, ti ho domandato: “Perché, per l’amor di Dio?” e tu hai risposto qualcosa come: “Forse è proprio questa la ragione”. Era solo un commento sciocco, o intendevi qualcosa di ben definito?»
«Intendevo che forse era proprio per l’amor di Dio.»
«Spiegati meglio.»
Nel buio, Johnny sospirò. «Non capisco lo scopo esatto del “Progetto Keats” e degli altri analoghi della Vecchia Terra, ma ho il sospetto che queste attività facciano parte di un altro progetto del TecnoNucleo, quello di tornare indietro di almeno sette secoli standard per realizzare l’Intelligenza Definitiva.»
«L’Intelligenza Definitiva» ripetei, soffiando una boccata di fumo. «Allora il TecnoNucleo tenta di… mmm… di costruire Dio.»
«Sì.»
«Perché?»
«Non c’è una risposta semplice, Brawne. Proprio come non c’è una semplice risposta alla domanda: perché gli uomini per diecimila generazioni hanno cercato Dio sotto un milione di aspetti? Ma per il Nucleo l’interesse sta più nella ricerca di una maggiore efficienza, di modi più sicuri per trattare… le variabili.»
«Ma il TecnoNucleo può attingere a se stesso e alla megasfera dati di duecento mondi.»
«E ci sarebbero ancora dei vuoti, nei… poteri profetici.»
Gettai dalla finestra la sigaretta e guardai la brace accesa cadere nella notte. Di colpo la brezza era diventata fredda. Mi strinsi nelle braccia. «Tutto questo… la Vecchia Terra, i progetti di resurrezione, i cìbridi… come porta alla creazione dell’Intelligenza Definitiva?»
«Non lo so, Brawne. Otto secoli standard fa, all’inizio della prima Epoca dell’Informazione, un certo Norbert Wiener scrisse: “Può Dio giocare con la sua stessa creatura un gioco significativo? Può, un creatore, anche se limitato, giocare con la propria creatura un gioco significativo?” L’umanità trattò questo problema, senza giungere a risultati conclusivi, con le prime IA. Il Nucleo lo affronta con i suoi progetti di resurrezione. Forse il programma dell’ID è stato completato e di tutto questo rimane una funzione del definitivo Creato/Creatore, una personalità i cui motivi sono molto al di là della comprensione del Nucleo, come quelli del Nucleo sono al di là della comprensione dell’umanità.»
Mi mossi nel buio, urtai con il ginocchio un tavolino basso, mi fermai. «Tutto questo non ci dice chi cerca di ucciderti» commentai.
«No.» Johnny si alzò e si accostò alla parete opposta. Accese un fiammifero e poi una candela. La nostra ombra tremolò sulle pareti e sul soffitto.
Johnny mi venne vicino e mi strinse piano le braccia. La luce fioca gli colorava di rame i riccioli e le ciglia, gli illuminava gli zigomi alti e il mento volitivo. «Perché sei così tenace?» mi chiese.
Lo fissai. Il suo viso era a qualche centimetro dal mio. Le sue labbra erano morbide e calde, e il bacio sembrò durare ore intere. “È una macchina”, mi dissi. “Umano, ma artificiale.” Chiusi gli occhi. La sua mano morbida mi sfiorò la guancia, il collo, la nuca.
«Senti…» mormorai, mentre ci staccavamo per un attimo.
Johnny non mi lasciò terminare. Mi sollevò fra le braccia e mi portò nell’altra camera. Il letto alto. Il materasso morbido, la spessa trapunta. Dall’altra camera la luce della candela tremolò e danzò, mentre ci spogliavamo l’un l’altro, con un’urgenza improvvisa.
Quella notte facemmo l’amore tre volte, ogni volta in risposta ai lenti e dolci imperativi del contatto e del calore e della vicinanza e della crescente intensità delle sensazioni. Ricordo d’averlo guardato, la seconda volta: aveva gli occhi chiusi, i riccioli gli ricadevano mollemente sulla fronte, la luce della candela rivelava un arrossamento sul torace pallido; le braccia e le mani, sorprendentemente forti, erano tese a tenermi ferma. In quel momento aveva aperto gli occhi per incontrare il mio sguardo e io vi lessi solo il riflesso dell’emozione e della passione di quel momento.