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Prima dell’alba ci addormentammo. Mentre mi giravo e mi perdevo nel sonno, sentii sulla coscia il tocco fresco della sua mano, un gesto protettivo e casuale che non aveva niente di possessivo.

Ci assalirono alle prime luci dell’alba. Erano cinque uomini, non lusiani ma molto robusti e abili nel lavoro di squadra.

Con un calcio spalancarono la porta dell’appartamento. Rotolai giù dal letto, mi appostai alla porta, li guardai arrivare. Johnny si alzò a sedere e gridò qualcosa, quando il primo lo prese di mira con uno storditore. Si era messo un paio di slip di cotone, prima di addormentarsi; io ero nuda. Ci sono svantaggi effettivi, a combattere nudi se gli avversari sono vestiti, ma quello maggiore è di natura psicologica. Se si riesce a superare l’impressione di essere più vulnerabile, gli altri si compensano facilmente.

Il primo mi vide, decise comunque di stordire Johnny e pagò l’errore: con un calcio gli feci saltare di mano l’arma e con un colpo dietro l’orecchio sinistro lo abbattei. Altri due entrarono nella stanza. Furono abbastanza intelligenti da affrontare prima me. Gli ultimi due saltarono addosso a Johnny.

Bloccai un colpo a dita tese, parai un calcio che mi avrebbe causato seri danni e arretrai. Alla mia sinistra c’era un cassettone alto: il primo, pesante cassetto venne via con facilità. L’uomo robusto davanti a me alzò le braccia per proteggersi il viso, e il legno spesso andò in pezzi; per un attimo la sua reazione istintiva mi diede una buona occasione e ne approfittai, dandogli un calcio con tutta la mia forza. L’uomo numero due mandò un gemito e cadde all’indietro contro il collega.

Johnny lottava, ma uno degli aggressori lo aveva afferrato per il collo e lo stava soffocando, mentre l’altro gli bloccava le gambe. Mi acquattai per terra, mi lasciai colpire dal numero due, poi con un balzo scavalcai il letto. Il tizio che bloccava le gambe di Johnny volò senza un grido dalla finestra, fra vetri e schegge di legno.

Un altro uomo mi saltò sulla schiena: rotolai al di là del letto e sbattei il mio avversario contro la parete. Era in gamba: con la spalla ammortizzò l’urto e cercò di premermi il nervo sotto l’orecchio. Per un secondo si trovò in difficoltà per via del mio strato supplementare di muscoli: gli piantai una gomitata allo stomaco e rotolai via. L’altro uomo mollò Johnny e mi vibrò alle costole un calcio da manuale. Lo assorbii in parte, rimettendoci come minimo una costola; gli girai sotto, senza tante finezze, e con la sinistra gli schiacciai i testicoli. L’uomo gridò. Era fuori combattimento.

Non avevo dimenticato lo storditore caduto per terra, ma anche l’ultimo avversario se ne ricordò: girò intorno al letto, fuori portata, e si buttò a terra per ricuperarlo. Provai una fitta di dolore quando sollevai il letto massiccio, con Johnny ancora sopra, e lo lasciai cadere di colpo sulla testa e sulle spalle dell’uomo. Avevo una costola rotta.

M’infilai sotto il letto, dalla mia parte, recuperai lo storditore e arretrai in un angolo libero.

Uno dei cinque era volato dalla finestra. Quattro metri buoni. Il primo che era entrato era steso ancora sulla soglia. Quello che si era beccato il calcio era riuscito ad alzarsi su un ginocchio e sui gomiti: dal sangue che gli macchiava labbra e mento dedussi che una costola gli avesse trapassato un polmone. Respirava a fatica. Il quarto aveva il cranio fracassato. L’ultimo, rannicchiato accanto alla finestra, si reggeva l’inguine e vomitava. Lo stordii in modo che stesse tranquillo e mi accostai a quello che avevo colpito con un calcio. Lo afferrai per i capelli e lo sollevai. «Chi vi ha mandati?»

«Vaffanculo.» Mi schizzò in faccia goccioline di saliva rossa.

«Dopo, forse. Te lo ripeto: chi vi ha mandati?» Gli piazzai tre dita nel punto in cui la cassa toracica sembrava ammaccata, e spinsi.

L’uomo urlò e diventò livido. Tossì e sputò sangue.

«Chi vi ha mandati?» Avvicinai quattro dita al torace.

«Il vescovo!» Tentò di scansarsi.

«Quale vescovo?»

«Tempio Shrike… Lusus… no, ti prego… oh, merda…»

«Cosa dovevate fare, di lui… di noi?»

«Niente… oh, maledizione… non farlo! Ho bisogno di un medico!»

«Certo. Rispondi.»

«Stordire lui, riportarlo… al Tempio… su Lusus. Per favore, non respiro più.»

«E io?»

«Ucciderti, se opponevi resistenza.»

«Bene» dissi, sollevandolo per i capelli. «Così va bene. Perché lo volevano?»

«Non lo so.» Il grido fu fortissimo. Tenni d’occhio la porta d’ingresso. Impugnavo sempre lo storditore, sotto la manciata di capelli. «Non… lo… so…» ansimò l’uomo. Adesso aveva una forte emorragia. Il sangue mi colava sul braccio e sul seno sinistro.

«Come siete arrivati qui?»

«VEM… sul tetto.»

«Da quale portale?»

«Non lo so… lo giuro… una città sull’acqua. Il VEM è predisposto per tornare lì… ti prego!»

Gli strappai i vestiti. Niente comlog. Niente armi. All’altezza del cuore, un tridente azzurro tatuato. «Sei un goonda?» dissi.

«Sì… Confraternita di Parvati.»

Fuori della Rete. Probabilmente molto difficile da rintracciare. «Tutt’e cinque?»

«Sì… per favore… aiutami… oh, merda… per favore…» Si lasciò andare, semisvenuto.

Lo mollai, arretrai d’un passo, lo spruzzai con lo storditore.

Johnny si era messo a sedere e si massaggiava la gola. Mi fissava con uno sguardo strano.

«Mettiti i vestiti» gli dissi. «Ce ne andiamo.»

Il VEM era un vecchio Vikken panoramico, trasparente, senza serratura a impronta del palmo sulla piastra d’accensione e senza diskey. Raggiungemmo il terminatore prima di avere attraversato la Francia e guardammo giù nel buio quello che Johnny chiamò l’oceano Atlantico. A parte le luci di qualche città galleggiante o di qualche piattaforma di perforazione, l’unica illuminazione proveniva dalle stelle e dal riflesso delle colonie sottomarine, simile a quello d’una piscina illuminata.

«Perché abbiamo preso il loro veicolo?» domandò Johnny.

«Voglio vedere da dove si sono teleportati.»

«Ha detto il Tempio Shrike di Lusus.»

«Già. Ora lo sapremo.»

Il viso di Johnny si scorgeva appena, mentre fissava il mare buio venti chilometri più in basso. «Credi che moriranno?»

«Uno era già morto» risposi. «Quello con il polmone perforato avrà bisogno di assistenza. Altri due stanno bene. Non so che fine ha fatto quello che è volato dalla finestra. A te importa?»

«Sì. La violenza era… barbara.»

«“Per quanto una zuffa per strada sia cosa da odiare, le energie ,che mostra sono belle”» citai. «Non erano cìbridi, vero?»

«Non credo.»

«Quindi almeno due gruppi vogliono mettere le mani su di te: le IA e il vescovo del Tempio Shrike. E continuiamo a non sapere perché.»

«Ora mi sono fatto un’idea.»

Mi girai di scatto sul sedile di flussoschiuma. Le costellazioni in alto — diverse sia da quelle della Vecchia Terra viste in ologramma, sia da quelle dei mondi della Rete da me visitati — emanavano luce sufficiente a permettermi di vedere gli occhi di Johnny. «Sentiamola» dissi.

«Citando Hyperion, mi hai dato una traccia» rispose. «Se non lo conoscevo, vuol dire che è importante.»

«Il bizzarro caso del cane che abbaia nella notte» commentai.

«Eh?»

«Niente. Continua.»

Johnny si sporse verso di me. «C’è una sola spiegazione al fatto che ignori l’esistenza di Hyperion: alcuni elementi del TecnoNucleo mi hanno cancellato l’informazione.»