«Non capisco» dissi. «Cosa significa?»
«Significa» rispose Johnny, con un garbato sorriso «che so quale decisione ho preso, e perché l’ho presa. Volevo smettere di essere un cìbrido e diventare un uomo. Volevo andare su Hyperion. Voglio ancora andarci.»
«Una settimana fa, per questa decisione, qualcuno ti ha ucciso.»
«Sì.»
«E intendi riprovarci?»
«Sì.»
«Perché non trasferisci qui la tua consapevolezza nel cìbrido? E diventi umano nella Rete?»
«Non funzionerebbe» rispose Johnny. «Quella che tu vedi come una complessa società interstellare, è solo una piccola parte della matrice di realtà del Nucleo. Mi troverei ad affrontare di continuo le IA, sarei alla loro mercé. La persona Keats… la realtà… non sopravvivrebbe.»
«E va bene, devi essere fuori della Rete. Ma esistono altre colonie. Perché proprio Hyperion?»
Johnny mi prese la mano. Aveva dita lunghe, calde, forti. «Non capisci, Brawne? Lì c’è una sorta di connessione. Può anche darsi che i sogni di Keats riguardanti Hyperion fossero una sorta di comunicazione trans-temporale fra la sua persona di allora e la sua persona di adesso. E se non bastasse, Hyperion è il mistero chiave della nostra epoca… fisico e poetico… ed è assai probabile che lui… che io sia nato, morto e rinato per sondarlo.»
«A me sembra follia pura. Megalomania.»
«Ah, certo» rise Johnny. «E non sono mai stato più felice!» Mi prese per le braccia, mi tirò in piedi, mi strinse a sé. «Verrai con me, Brawne? Con me su Hyperion?»
Battei le palpebre, sorpresa sia per la sua domanda sia per la mia risposta, che mi riempì di calore. «Sì» dissi «verrò con te.»
Passammo nella zona letto e facemmo l’amore per il resto del giorno; alla fine ci addormentammo; ci svegliammo alle luci basse del Terzo Turno nel fossato industriale esterno. Johnny era disteso sulla schiena, perso nei suoi pensieri, gli occhi color nocciola fissi al soffitto. Ma non era tanto concentrato da non sorridere e da non circondarmi con il braccio. Appoggiai contro di lui la guancia, nel lieve incavo tra la spalla e il torace, e mi riaddormentai.
Indossavo il mio abito migliore (completo di saia nera, blusa di seta di Rinascimento, eliotropia Carvnel al collo, tricorno di Eulin Bré) quando, il giorno seguente, Johnny e io ci teleportammo su TC2. Lasciai Johnny nel bar tutto legno e ottoni accanto al terminex centrale, ma prima gli passai l’automatica di papà nascosta in un sacchetto di carta, dicendogli di sparare a chiunque lo guardasse anche solo storto.
«L’inglese della Rete è una lìngua così sottile» commentò lui.
«Questo modo di dire è più antico della Rete. Spara e basta.» Gli diedi una stretta alla mano e uscii senza guardarmi indietro.
Con un aerotaxi arrivai al Complesso Amministrativo e superai nove controlli di sicurezza, prima che mi lasciassero entrare nel Centro. Percorsi a piedi il mezzo chilometro del Deer Park, ammirando i cigni del laghetto e i bianchi edifici sulla collina lontana; poi superai altri nove posti di controllo prima che una donna della sicurezza del Centro mi accompagnasse sul viale di pietra fino al palazzo del Governo, un basso edificio grazioso fra giardini in fiore e colline panoramiche. Dentro c’era una sala d’attesa arredata con eleganza, ma ebbi appena il tempo di sedermi su un autentico de Kooning pre-Egira che un aiutante mi introdusse nell’ufficio privato del PFE.
Meina Gladstone girò intorno alla scrivania per stringermi la mano e farmi accomodare. Era strano vederla di nuovo di persona, dopo averla vista per tanti anni solo in TVE. In carne e ossa era ancora più impressionante: capelli corti che però sembravano volare all’indietro in onde grigie e bianche; guance e mento magri e lincolniani, come dicevano gli eruditi in storia; ma erano gli occhi, grandi, castani, tristi, a dominare il viso e a dare l’impressione di trovarsi di fronte a una persona davvero fuori del comune.
Scoprii di avere la bocca secca. «Grazie per avermi ricevuto, signor presidente. So quant’è occupato.»
«Per te, Brawne, ho sempre un momento libero. Proprio come tuo padre per me, quando ero solo un giovane senatore.»
Papà una volta aveva detto che Meina Gladstone era l’unico genio politico dell’Egemonia. Sapeva che un giorno sarebbe diventata PFE, anche se si era dedicata tardi alla politica. Rimpiansi che papà non fosse vissuto abbastanza da vederla.
«Come sta tua mamma, Brawne?»
«Bene, grazie, signor presidente. Ormai lascia di rado la residenza estiva su Freeholm, ma la vedo ogni Natale.»
Gladstone annuì. Si era seduta con noncuranza sul bordo della massiccia scrivania appartenuta, secondo i tabloid, a un presidente assassinato (no, non Lincoln) degli USA pre-Errore; ma ora sorrise e fece il giro per sedersi sulla semplice poltrona. «Sento la mancanza di tuo padre, Brawne. Vorrei che fosse ancora in questa amministrazione. Hai visto il laghetto, venendo qui?»
«Sì.»
«Ricordi quando tu e la mia Kresten, ancora bambine, giocavate con le barchette?»
«Lo ricordo appena, signor presidente. Ero piccolissima.»
Meina Gladstone sorrise. Un intercom suonò, ma con un gesto lei zittì l’apparecchio. «Cosa posso fare per te, Brawne?»
Inspirai a fondo. «Signor presidente, probabilmente sa che lavoro come investigatore privato…» Non aspettai il suo cenno d’assenso. «Un caso recente mi ha riportato al suicidio di papà…»
«Brawne, sai che le indagini sono state molto approfondite. Ho letto il rapporto della commissione.»
«Sì» risposi. «L’ho letto anch’io. Ma di recente ho scoperto alcune cose singolari, riguardo il TecnoNucleo e il suo atteggiamento verso il pianeta Hyperion. Lei e papà non lavoravate a una legge che avrebbe incluso Hyperion nel Protettorato dell’Egemonia?»
Gladstone annuì. «Sì, Brawne, ma c’erano più di dieci altre colonie da prendere in esame, quell’anno. Nessuna è entrata nel Protettorato.»
«Esatto. Ma il Nucleo o la Commissione di Consulenza IA non avevano un interesse speciale per Hyperion?»
Con uno stilo il PFE si picchiettò il labbro inferiore. «Che genere d’informazioni hai, Brawne?» Aprii bocca per rispondere, ma lei alzò il dito per ammonirmi. «Aspetta!» Premette i tasti di un interattivo. «Thomas, esco per qualche minuto. Per favore, bada che la delegazione commerciale di Sol Draconis sia intrattenuta adeguatamente, se resto un po’ indietro sul programma.»
Non la vidi premere altri tasti, ma a un tratto un teleporter azzurro e oro si materializzò con un ronzio accanto alla parete più lontana. Lei mi fece segno di passare per prima.
Una pianura dorata, erba che arrivava al ginocchio fino a un orizzonte che sembrava più lontano di altri. Cielo di un giallo chiarissimo, con strisce color rame brunito che forse erano nuvole. Non riconobbi il pianeta.
Meina Gladstone varcò il teleporter e toccò il ricamo comlog sulla manica. Il teleporter tremolò e scomparve. Una brezza tiepida ci portò un profumo di spezie.
Gladstone si toccò di nuovo la manica, lanciò un’occhiata al cielo e annuì. «Chiedo scusa per il fastidio, Brawne. Kastrop-Rauxel non ha sfera dati né satelliti di qualsiasi tipo. Ora continua pure. Di quali informazioni sei entrata in possesso?»
Guardai la prateria deserta. «Niente che esiga un simile grado di sicurezza… forse. Ho appena scoperto che il TecnoNucleo sembra molto interessato a Hyperion. Ha perfino costruito una sorta di analogo della Vecchia Terra… un mondo intero!»
Se m’aspettavo sorpresa o stupore, rimasi delusa. Gladstone annuì. «Sì. Siamo al corrente dell’analogo della Vecchia Terra.»
Adesso fui io a essere stupita. «Allora perché non se n’è mai parlato? Se il Nucleo può ricostruire la Vecchia Terra, un mucchio di gente sarebbe interessata.»