«Ecco cosa vale» disse mentre apriva il ventre del poveraccio come se fosse stato un sacchetto roseo, ripiegava i lembi di pelle e di muscoli e li fissava come fossero i lembi di una tenda.
«Cosa?» domandai.
«La vita di questo disgraziato» rispose il medico, mentre tirava la pelle del viso del cadavere in alto e all’indietro come una maschera untuosa. «La sua vita. La mia vita.» Le strisce rosse e bianche di muscoli sovrapposti diventavano d’un azzurro livido, attorno al foro frastagliato appena sopra lo zigomo.
«Dev’esserci qualcosa di più» dissi.
Il medico sollevò lo sguardo dal suo lavoro sinistro, con un sorriso divertito. «Davvero?» rispose. «Me lo mostri, la prego.» Sollevò nella mano il cuore del morto e sembrò soppesarlo. «Nei mondi della Rete, questo avrebbe un certo valore, al mercato libero. C’è gente troppo povera per tenere colture in vasca o parti clonate di scorta, ma abbastanza benestante da non morire per la semplice mancanza di un cuore di ricambio. Quassù invece è solo immondizia.»
«Dev’esserci di più» dissi ancora, anche se non mi sentivo molto convinto. Ricordavo il funerale di Sua Santità Urbano XV, poco prima che lasciassi Pacem. Secondo la tradizione che risaliva all’epoca precedente l’Egira, la salma non era stata imbalsamata. Attendeva, nell’anticamera della basilica principale, d’essere preparata per la semplice bara di legno. Mentre aiutavo Edouard e Monsignor Frey a vestire il cadavere irrigidito, avevo notato che la pelle diventava scura e la bocca si rilassava.
Il medico scrollò le spalle e terminò l’autopsia eseguita per forza d’abitudine. Seguì la più breve delle inchieste formali. Non furono trovate persone sospette, né furono ipotizzati dei moventi. La descrizione della vittima fu inviata a Keats, ma il cadavere fu seppellito il giorno seguente in una fossa comune a metà strada fra le secche fangose e la giungla gialla.
Port Romance è un guazzabuglio di edifici gialli in legno weir, situati sopra un labirinto d’impalcature e di assi esteso fino alle secche fangose alla foce del Kans. Il fiume è largo quasi due chilometri, nel punto dove si getta nella baia Toschahai, ma solo alcuni canali sono navigabili e li dragano in continuazione. Ogni notte, nella mia camera a buon mercato, me ne sto disteso senza dormire mentre dalla finestra aperta mi arriva il tonfo delle draghe, simile al battito del cuore abietto della città, e il lontano sussurro dei frangenti che ricorda il suo umido fiato. Stanotte ascolto il respiro della città e non posso fare a meno di attribuirlo alla faccia scorticata dell’uomo assassinato.
Le compagnie tengono in funzione, al limite della città, un porto per skimmer per trasportare nell’entroterra uomini e materiali destinati alle piantagioni più estese, ma io non ho denaro sufficiente per comprarmi sottobanco un passaggio. Per meglio dire, potrei salire a bordo, ma non posso permettermi il trasporto delle mie tre casse di apparecchiature mediche e scientifiche. Sono ancora tentato, ma la missione fra i Bikura mi sembra più assurda e irrazionale che mai. Solo il bizzarro bisogno d’avere una meta, e una certa determinazione masochistica a rispettare i termini dell’esilio che mi sono imposto, mi spingono ancora a risalire il fiume.
Fra due giorni un battello fluviale risale il Kans. Ho prenotato un posto e domani porterò a bordo le casse. Non avrò rimpianti a lasciarmi alle spalle Port Romance.
Giorno 41
La Emporotic Girandole continua la lenta risalita del fiume. Non ho visto abitazioni umane, da quando, due giorni fa, abbiamo lasciato l’approdo Melton. Ora la giungla preme sulle rive come una solida muraglia; anzi, sporge addirittura sopra di noi, nei punti dove l’ampiezza del fiume si riduce a una quarantina di metri soltanto. La luce stessa è gialla, densa come burro fuso, perché filtra attraverso il baldacchino di rami e di fronde, ottanta metri sopra l’acqua scura del Kans. Seduto sul tetto di lamiera arrugginita della zattera centrale passeggeri, aguzzo lo sguardo per scorgere il mio primo albero tesla. Il vecchio Kady, seduto lì vicino, smette per un attimo di tagliuzzare un pezzo di legno, sputa oltre la murata e ride mostrando il vuoto fra i denti. «Non ci sono alberi fiamma, così lontano quaggiù» dice. «Se fossero la foresta, sicuro come l’inferno che non sarebbe così. Deve salire sulla Punta d’Ala, prima di vedere un tesla. Ancora non siamo fuori della foresta pluviale, padre.»
Piove ogni pomeriggio. A dire il vero, pioggia è un termine troppo gentile per indicare il diluvio che ci colpisce tutti i giorni, che oscura la riva, batte con un frastuono assordante il tetto delle zattere e rallenta la nostra avanzata al punto da farci credere d’essere fermi. Sembra quasi che ogni pomeriggio il fiume diventi un torrente verticale, una cascata che il battello deve scalare, se vuole procedere.
La Girandole, un antiquato rimorchiatore a fondo piatto, trascina cinque zattere simili a bambini cenciosi attaccati alle gonne della madre esausta. Delle zattere a due piani, tre trasportano balle di merci da scambiare o vendere nelle scarse piantagioni e negli insediamenti lungo il fiume. Le altre due offrono una parvenza d’alloggiamento per i nativi che risalgono il fiume, ma sospetto che alcuni passeggeri delle zattere vi risiedano in permanenza. Il mio posto letto vanta un materasso macchiato, steso per terra, e insetti simili a lucertole sulle pareti.
Dopo la pioggia, ci raduniamo tutti sul ponte per osservare le nebbie serali che si alzano dal fiume rinfrescato. Ora, per gran parte della giornata, l’aria è molto calda e satura di vapore. Il vecchio Kady mi dice che sono arrivato troppo tardi per compiere la risalita tra le foreste pluviali e di fuoco prima che i tesla diventino attivi. Staremo a vedere.
Stanotte le nebbie si levano come gli spiriti di tutti i morti che dormono sotto la superficie scura del fiume. Gli ultimi resti sbrindellati delle nuvole del pomeriggio si disperdono fra le cime degli alberi e il colore torna sul mondo. La fitta foresta passa dal giallo cromo a un trasparente zafferano; poi sbiadisce a poco a poco nell’ocra, fino al terra d’ombra e al nero. Sulla Girandole, il vecchio Kady accende le lanterne e i lumi tondi che pendono dalla seconda fila incurvata; quasi per non essere da meno, la giungla scura comincia a brillare della debole fosforescenza del marciume, mentre gli uccelli luminosi e i ragnatelidi multicolori si librano di ramo in ramo nelle zone buie più in alto.
Stanotte la piccola luna di Hyperion non è visibile, ma questo mondo si muove fra un numero maggiore di detriti celesti di quanto non avvenga per un pianeta altrettanto vicino al suo sole, e i cieli notturni sono illuminati da frequenti piogge di meteoriti. Stanotte i cieli sono particolarmente fertili: mentre ci muoviamo nelle sezioni più ampie del fiume vediamo scie di meteore collegare di vivida luce le stelle. Dopo un poco, l’immagine brucia la retina e sposto lo sguardo sul fiume, solo per vedere nelle acque scure l’identica eco ottica.
Nell’orizzonte orientale c’è un riflesso vivido; il vecchio Kady mi dice che proviene dagli specchi orbitali che illuminano le piantagioni più estese.
Fa troppo caldo per tornare in cabina. Allargo sul tetto della zattera la stuoia sottile e ammiro lo spettacolo di luci celesti, mentre famiglie di nativi intonano canzoni ossessive in un dialetto che non ho nemmeno provato a imparare. Penso con meraviglia ai Bikura, ancora lontanissimi da qui, e mi sento prendere da un’ansia strana.
Nella foresta, chissà dove, un animale strilla con una voce da donna atterrita.
Giorno 60
Arrivato piantagione Perecebo. Malato.
Giorno 62
Molto malato. Febbre, crisi di tremito. Tutto ieri ho vomitato bile nera. La pioggia è assordante. Di notte gli specchi orbitali illuminano da sopra le nuvole. Il cielo sembra in fiamme. Ho febbre altissima.