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Ma mi fidai.

Allentai il pugno e gli presi la mano.

«Bene» disse lui. «Finisci di mangiare e ci daremo da fare per salvarci la vita.»

Armi e droghe erano le due cose più facili da comprare, a Sedimento. Johnny aveva una considerevole provvista di marchi del mercato nero: la spendemmo tutta nell’acquisto di armi.

Alle dieci di sera indossavamo tutti e due un’armatura in fibra di polititanio. Johnny aveva un elmetto goonda a specchio nero, io una maschera comando, un’eccedenza della FORCE. I guanti elettronici di Johnny erano massicci e di color rosso vivo. Io calzavo guanti a osmosi con l’orlo letale. Johnny aveva una frusta Ouster recuperata su Bressia e portava infilata nella cintura una vergalaser. Oltre all’automatica di papà, ora avevo un minicannone Steiner-Ginn con un’imbracatura giroscopica fissata alla cintura. Era collegato al visore comando, perciò mi lasciava libere le mani mentre sparava.

Johnny e io ci guardammo e cominciammo a ridacchiare. Quando smettemmo, seguì un lungo silenzio.

«Sei sicuro che la nostra migliore possibilità sia il Tempio Shrike qui su Lusus?» gli chiesi per la terza o quarta volta.

«Non possiamo usare il teleporter» disse Johnny. «Al Nucleo basta registrare un cattivo funzionamento e siamo morti. Non possiamo neppure prendere un ascensore. Dobbiamo trovare scale non controllate da monitor e salire a piedi i centoventi piani. Il modo migliore di arrivare al Tempio è percorrere direttamente il Concourse Mall.»

«Sì, ma la gente della Chiesa Shrike ci lascerà entrare?»

Johnny si strinse nelle spalle: la tenuta da combattimento gli dava una strana aria da insetto. Il casco goonda dava alla voce un suono metallico. «È l’unico gruppo che ha un interesse legittimo nella nostra sopravvivenza. E un peso politico sufficiente a proteggerci dall’Egemonia, mentre cerchiamo di arrivare su Hyperion.»

Sollevai il visore. «Meina Gladstone ha detto che non saranno più permessi voli di pellegrinaggio su Hyperion.»

La calotta di specchio nero annuì. «Be’, al diavolo Meina Gladstone» disse il mio amante poeta.

Inspirai a fondo e andai all’apertura della nicchia, caverna, ultimo rifugio. Johnny mi seguì. La sua armatura strusciò contro la mia. «Pronta, Brawne?»

Annuii, girai sul perno il minicannone e mi avviai all’uscita.

Con un gesto, Johnny mi fermò. «Ti amo, Brawne.»

Risposi con un cenno d’assenso, facendo finta di essere ancora arrabbiata. Ma non mi ero accorta di avere il visore sollevato e quindi lui vide le lacrime.

L’Alveare era sveglio per tutte le ventotto ore del giorno ma, grazie a chissà quale tradizione, il Terzo Pozzo era il più tranquillo e meno popolato. Avremmo avuto possibilità migliori se avessimo approfittato dell’ora di massimo traffico del Primo Pozzo, lungo le soprelevate pedonali; ma se i goonda e i thug ci aspettavano, ci sarebbe stato un numero impressionante di vittime innocenti.

Impiegammo più di tre ore per salire fino al Concourse Mall, non per una singola scala, ma attraverso una serie infinita di corridoi per mecc, di pozzi verticali ripuliti dalle sommosse dei Ludditi ottant’anni prima, e di un’ultima scaletta più ruggine che metallo. Sbucammo in un corridoio di servizio a meno di mezzo chilometro dal Tempio Shrike.

«Non posso credere che sia stato così facile» mormorai a Johnny attraverso l’intercom.

«Probabilmente concentrano gente allo spazioporto e nei grappoli di teleporter privati.»

Prendemmo il marciapiede meno esposto del Concourse, trenta metri sotto il primo livello di negozi e quattrocento metri più in basso del tetto. Il Tempio Shrike era un edificio isolato, ricco di ornamenti. Alcuni individui che andavano fuori orario a fare spese e alcuni fanatici di jogging ci guardarono e s’allontanarono in fretta. Ero sicura che avrebbero avvertito la polizia del Mall, ma mi sarei stupita se gli sbirri fossero comparsi presto.

Da un pozzo di sollevamento spuntò una banda di thug di strada dipinti a colori vivaci, che saltavano e lanciavano grida di esultanza. Avevano vibrocoltelli, catene, guanti energizzati. Sorpreso, Johnny si girò verso di loro e con la frustalaser lanciò una ventina di raggi di puntamento. Ronzando, il minicannone si mosse da bersaglio a bersaglio seguendo il movimento degli occhi.

La banda si bloccò: i sette ragazzi che la componevano alzarono le mani e indietreggiarono con gli occhi sbarrati. S’infilarono nel pozzo di sollevamento e sparirono.

Guardai Johnny. Lo specchio nero mi restituì l’occhiata. Nessuno dei due rise.

Attraversammo per immetterci nel viale di negozi che portava a nord. I pochi pedoni s’affrettarono a cercare rifugio nei negozi già aperti. Eravamo a meno di cento metri dalla scalinata del Tempio. Sentivo davvero il battito del cuore, negli auricolari dell’elmetto della FORCE. Eravamo a cinquanta metri dalla scalinata. Come se fosse stato chiamato, un accolito o chissà che sacerdote comparve sulla porta alta dieci metri del Tempio e ci guardò avvicinarci. Trenta metri. Se intendevano intercettarci, l’avrebbero fatto ora.

Mi girai verso Johnny per dirgli una battuta. Almeno venti raggi e dieci proiettili ci colpirono nello stesso istante. Lo strato esterno di polititanio esplose e così deviò quasi tutta l’energia dei proiettili. Lo strato inferiore a specchio rifletté la maggior parte dei raggi letali. La maggior parte.

L’impatto gettò a terra Johnny. Mi piegai su un ginocchio e lasciai che il minicannone colpisse la sorgente laser.

Dieci piani più in alto, lungo la parete residenziale dell’Alveare. Il mio visore diventò opaco. L’armatura bruciò, emettendo un vapore riflettente. Il rumore del minicannone assomigliava a quello di una sega a catena, di quelle che si vedono negli olodrammi storici. Dieci piani più in alto, una sezione di balcone e di parete larga cinque metri si disintegrò in una nuvola di flechette esplosive e di scariche perforanti.

Tre pesanti pallottole mi colpirono da dietro. Atterrai sulle mani, spensi il minicannone e mi girai di scatto su me stessa. Su ogni livello c’erano almeno dieci avversari: si muovevano secondo una rapida e precisa coreografia di combattimento. Johnny si era alzato in ginocchio e con la frustalaser scagliava esplosioni di luce ben orchestrate: si apriva la strada attraverso l’arcobaleno per battere le difese a riflessione.

Una figura in corsa esplose in una fiammata, mentre la vetrina alle sue spalle diventava vetro fuso e lanciava schizzi di cinquanta metri nel Concourse. Altri due uomini si affacciarono alla ringhiera del livello, ma li ricacciai indietro con una scarica del mini.

Uno skimmer aperto scese dai falsi puntoni, con i repulsori che faticavano mentre passava a zigzag fra i tralicci. Razzi colpirono il cemento intorno a Johnny e a me. Le vetrine vomitarono miliardi di schegge di vetro. Guardai, battei due volte le palpebre, mirai, sparai. Lo skimmer sbandò lateralmente, colpì un ascensore nel quale era rannicchiata una decina di civili, rotolò in una massa di metallo contorto e in un’esplosione di materiali militari. Vidi un cliente in fiamme saltare sul pavimento dell’Alveare ottanta metri più sotto.

«A sinistra!» gridò Johnny, nell’intercom a raggio compatto.

Quattro uomini in armatura da combattimento erano scesi da un livello superiore, usando monorepulsori. L’armatura polarizzata camaleontica tentava di adeguarsi alle variazioni dello sfondo, ma riusciva solo a trasformare ogni uomo in un vivido caleidoscopio di riflessi. Mentre gli altri tre assalivano Johnny, il quarto entrò nell’arco di fuoco del minicannone per neutralizzarmi.

Si avventò impugnando un vibrocoltello, stile ghetto. Lasciai che intaccasse la mia armatura pur sapendo che avrebbe raggiunto la carne dell’avambraccio e guadagnai così il secondo che mi occorreva. Lo uccisi con l’orlo rigido del guanto e concentrai il fuoco del mini sui tre che stavano assalendo Johnny.