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Avevano spento l’unica lampada; la stanza era illuminata solo a tratti dai fulmini brucianti. Ombre nascevano di colpo, svanivano, ricomparivano, mentre la stanza si tingeva di svariati colori. A volte l’oscurità durava parecchi secondi, prima del successivo fuoco di sbarramento.

Il Console infilò la mano nella sacca da viaggio e tirò fuori una bizzarra apparecchiatura, più grossa di un comlog, curiosamente ornata, che presentava sul davanti un diskey a cristalli liquidi: una specie di reliquia uscita da un ologramma di storia.

— Un trasmettitore astrotel segreto? — chiese seccamente Brawne Lamia.

Il Console fece un sorrisetto. — Un comlog antico. Prodotto durante l’Egira. — Da una tasca nella cintura prese il microdischetto standard e lo inserì nel comlog. — Come padre Hoyt, anch’io devo raccontare la storia di un altro, perché possiate comprendere la mia.

— Cristo in croce! — sbottò Martin Sileno, irridente. — Sono l’unico, in questo branco di merda, che sappia raccontare una storia in maniera diretta? Quanto devo…

Lo stesso Console fu sorpreso dalla propria reazione. Si alzò, si girò, afferrò il poeta per il mantello e il davanti della camicia, lo sbatté contro la parete, lo buttò sopra una cassa d’imballaggio, gli piantò un ginocchio sulla pancia, gli premette la gola con il braccio e sibilò: — Ancora una parola, poeta, e ti uccido!

Sileno cercò di ribellarsi, ma l’aumento della pressione sulla carotide e uno sguardo agli occhi del Console lo convinsero che era meglio lasciar perdere. Era pallidissimo.

In silenzio, quasi con gentilezza, il colonnello Kassad li separò. — Non ci saranno altri commenti — disse. Sfiorò la neuroverga infilata nella cintura.

Martin Sileno si spostò sul lato più lontano massaggiandosi la gola, si lasciò andare contro una cassa e restò zitto. Il Console andò alla porta, fece alcuni respiri profondi e tornò al suo posto. Parlò a tutti, tranne che al poeta. — Scusate. Solo che… non pensavo che avrei mai condiviso con altri questa storia.

Dall’esterno arrivò un’ondata di luce rossa e poi bianca, seguita da un bagliore azzurrastro che si spense nel buio.

— Lo sappiamo — disse Brawne Lamia, a voce bassa. — Ci sentiamo tutti come lei.

Il Console si toccò il labbro inferiore, annuì, si schiarì la voce e sedette accanto all’antico comlog. — La registrazione non è antica quanto lo strumento — disse. — Risale a circa cinquanta anni standard fa. Al termine, avrò ancora qualcosa da dire. — Esitò, come se ci fosse dell’altro; poi scosse la testa e premette il pollice sull’antico diskey.

Non c’erano effetti ottici. La voce era quella d’un uomo giovane. In sottofondo si udiva la brezza soffiare tra l’erba o fra tenere fronde; più in lontananza, un fruscio di onde.

All’esterno la luce pulsò come impazzita, mentre il ritmo della lontana battaglia spaziale accelerava. Il Console si irrigidì, aspettò lo schianto e l’esplosione. Non ci furono. Chiuse gli occhi e ascoltò insieme agli altri.

IL RACCONTO DEL CONSOLE

Ricordando Siri

Salgo la ripida collina fino alla tomba di Siri, nel giorno in cui le isole tornano ai mari bassi dell’Arcipelago Equatoriale. Il giorno è perfetto e io odio la perfezione. Il cielo è tranquillo come i racconti dei mari della Vecchia Terra, le secche sono chiazzate di sfumature blu; una brezza tiepida arriva dal largo e increspa la rossiccia erbasalice sul pendio accanto a me.

In una giornata del genere sarebbero più adatte delle nuvole basse e una luce scarsa. Un po’ di foschia, o una coltre di nebbia che facesse gocciolare gli alberi maestri nel Porto di Primosito e svegliasse dal suo torpore la sirena del faro. Sarebbe meglio se dal freddo ventre del sud soffiasse uno dei simun marini, che spingono davanti a sé le isole mobili e i delfini pastori finché non cercano riparo sottovento ai nostri atolli e ai picchi sassosi.

Qualsiasi cosa sarebbe meglio di una calda giornata di primavera come questa, con il sole che si muove in un cielo così azzurro da farmi venir voglia di correre, di saltare, di rotolarmi nell’erba soffice, come Siri e io facevamo proprio in questo posto.

Proprio questo posto. Mi fermo per guardarmi intorno. L’erba-salice si piega e s’increspa come la pelliccia di un grosso animale; la brezza porta da sud un sapore salmastro. Mi schermo gli occhi, scruto l’orizzonte: niente si muove. Lontano, al di là della scogliera di lava, il mare comincia a frangersi e si solleva in onde nervose.

«Siri» mormoro. Pronuncio il suo nome senza volerlo. Cento metri più sotto, lungo il pendio, la folla si ferma a guardarmi e trattiene il respiro. Il corteo del funerale si estende per più di un chilometro, fin dove iniziano gli edifici bianchi della città. In prima fila distinguo la testa grigia e calva del mio figlio minore. Indossa la veste azzurro e oro dell’Egemonia. So che dovrei aspettarlo, camminare con lui; ma lui e gli altri membri anziani del consiglio non possono tenere il passo dei miei muscoli giovani e allenati sulla nave, della mia andatura costante. Ma il decoro esige che cammini con lui, e con mia nipote Lira e con il mio nipotino di nove anni.

Al diavolo il decoro. E al diavolo i nipoti.

Mi giro e risalgo in fretta il pendio. Il sudore m’inzuppa l’ampia camicia di cotone, quando raggiungo la sommità piatta della cresta e vedo la tomba.

La tomba di Siri.

Mi fermo. Il vento mi gela, anche se il sole è caldo e si riflette sulla perfetta pietra bianca del mausoleo silenzioso. Accanto all’ingresso sigillato della cripta, l’erba è alta. File di sbiadite bandierine festive su aste d’ebano costeggiano lo stretto sentiero di ghiaia.

Giro intorno alla tomba, esitante, e mi accosto alla scogliera a strapiombo qualche metro più in là. Qui l’erbasalice è piegata e calpestata, dove individui irriverenti hanno steso una tovaglia per il picnic. Ci sono alcuni focolari messi insieme con le pietre perfettamente rotonde e perfettamente bianche rubate dalla bordura del sentiero di ghiaia.

Non riesco a trattenere un sorriso. Conosco il panorama che si vede da qui: la grande curva del porto esterno con il suo molo naturale; gli edifici bassi e bianchi di Primosito; gli scafi e gli alberi colorati dei catamarani che si dondolano all’ancora. Accanto alla spiaggia di ciottoli al di là della Sala del Parco, una ragazza con una gonna bianca si avvia all’acqua. Per un attimo credo che sia Siri e sento il cuore battere più forte. Quasi mi preparo a rispondere col braccio al suo gesto di saluto, ma lei non saluta. Osservo in silenzio quella figura lontana girarsi e perdersi nell’ombra del vecchio cantiere navale.

In alto, molto lontano dalla scogliera, un tommifalco dalle ampie ali descrive cerchi sopra la laguna approfittando delle termali ascendenti ed esamina con i suoi occhi a infrarossi i mutevoli letti di fuchiblù, alla ricerca di arpafoche o di torpidi. “La natura è stupida” penso; mi siedo sull’erba soffice. La natura ha disposto uno scenario tutto sbagliato per un giorno come questo, ed è tanto poco sensibile da aggiungervi un uccello in cerca di prede che da molto tempo sfuggono le acque inquinate nelle vicinanze della città in sviluppo.

Ricordo un altro tommifalco, la prima notte che Siri e io siamo saliti qui in cima. Ricordo il chiaro di luna sulle sue ali e il grido bizzarro e ossessionante che era echeggiato dalla scogliera ed era sembrato forare l’aria buia sopra le luci a gas del villaggio sottostante.

Siri aveva sedici anni… no, non ancora. Il chiaro di luna che aveva sfiorato le ali del falco, aveva anche bagnato di una luce lattea la sua pelle nuda e gettato ombre sotto i morbidi cerchi dei suoi seni. Guardammo in alto con aria colpevole, quando il grido dell’uccello squarciò la notte e Siri disse: «Fu l’usignolo e non la lodola, a ferire il tuo orecchio timoroso».