Una donna si prende cura di me. Mi fa il bagno. Sto troppo male per vergognarmi. Ha capelli più scuri della maggior parte dei nativi. Parla poco. Occhi neri, gentili.
Oh, Dio mio, star male così lontano da casa!
Giorno
aspetta spiando entra dalla pioggia la sottile camicia
allo scopo di tentarmi, sa chi sono la pelle mi brucia capezzoli di cotone sottile scuri contro la stoffa so loro chi sono mi osservano sento la loro voce di notte mi bagnano nel veleno che mi brucia pensano che non so ma sento la loro voce al di sopra della pioggia quando le urla smettono smettono smettono
la pelle m’è quasi scomparsa, rosso di sotto sento il buco nella guancia, quando trovo il proiettile lo sputo, agnus dei qui tollis peccata mundi miserere nobis miserere nobis miserere
Giorno 65
Grazie, Signore, d’avermi liberato dal male.
Giorno 66
Oggi mi sono fatto la barba. Sono riuscito ad arrivare alla doccia.
Semfa mi ha aiutato a prepararmi per la visita dell’amministratore. Mi aspettavo un tipo grosso e sgarbato, come quelli che vedevo dalla finestra al lavoro nello spiazzo di selezione, invece era un nero tranquillo, con la pronuncia lievemente blesa. Mi è stato di grande aiuto. Ero preoccupato per il pagamento delle spese mediche, ma mi ha rassicurato che non ce n’erano. Meglio ancora: mi assegnerà un uomo che mi farà da guida nelle terre alte! Dice che la stagione è abbastanza inoltrata, ma che se fra dieci giorni sono in grado di viaggiare potrei attraversare la foresta di fuoco fino alla Fenditura, prima che gli alberi tesla siano in piena attività.
Quando se n’è andato, mi sono seduto a parlare un poco con Semfa. Suo marito è morto qui tre mesi locali fa, in un incidente di mietitura. Semfa viene da Port Romance: il matrimonio con Mikel è stata la sua salvezza e preferisce stare qui a fare lavori saltuari, invece di ridiscendere il fiume. Non la biasimo.
Dopo un massaggio, dormirò. Di recente ho sognato molto mia madre.
Dieci giorni. Sarò pronto, fra dieci giorni.
Giorno 75
Prima di partire con Tuk, sono sceso alle risaie matrici per dire addio a Semfa. Non ha parlato molto, ma nei suoi occhi si leggeva la tristezza per la mia partenza. Senza premeditazione, l’ho benedetta e poi l’ho baciata sulla fronte. Tuk, lì vicino, sorrideva e si agitava. Poi siamo partiti tirandoci dietro due ibridi da soma. Il sovrintendente Orlandi è venuto fino in fondo alla strada e ci ha salutati agitando il braccio, mentre imboccavamo lo stretto viottolo aperto tra il fogliame dorato.
Domine, dirige nos.
Giorno 82
Dopo una settimana di pista… pista?… dopo una settimana nella foresta pluviale, gialla e impervia, dopo una settimana di faticosa scalata del rilievo sempre più ripido dell’altopiano Punta d’Ala, stamattina siamo sbucati su un affioramento roccioso che ci ha permesso di dare un’occhiata al cammino percorso, al tratto di giungla verso il Becco e il mar Medio. Qui l’altopiano raggiunge quasi i tremila metri sul livello del mare: uno spettacolo impressionante. Nuvole gonfie di pioggia si estendevano sotto di noi fino ai piedi dei monti Punta d’Ala, ma tra gli squarci nel tappeto di nubi bianche e grigie si scorgevano tratti del Kans che fluiva lento verso Port Romance e il mare, scampoli giallo cromo della foresta attraversata con tanta fatica e un tocco rosso magenta in fondo, a oriente, che secondo Tuk era senza dubbio la risaia matrice inferiore delle coltivazioni di fibroplastica vicino a Perecebo.
Abbiamo continuato a salire fino a sera inoltrata. Tuk è chiaramente preoccupato per il rischio di essere sorpresi nelle foreste di fuoco quando gli alberi tesla diverranno attivi. Mi sforzo di tenere il suo passo, tirandomi dietro l’ibrido carico, e prego in silenzio per distogliere il pensiero da tutti i dolori che mi affliggono.
Giorno 83
Carico e partenza prima dell’alba. Nell’aria c’è odore di fumo e di cenere.
Sull’altopiano, il cambiamento della vegetazione è sorprendente. Non si vedono più gli onnipresenti alberi di weir e i fronzuti chalma. Attraversata una zona intermedia di bassi sempreverdi e semprazzurri, abbiamo proseguito la salita tra fitti boschetti di pini a ombrello mutati e di tripioppi tremuli; poi siamo entrati nella foresta di fuoco vera e propria, con le sue macchie d’alti prometei, i tralci dell’onnipresente fenice rampicante, i tondi boschetti dai guizzanti color ambra. Di tanto in tanto abbiamo incontrato faglie insuperabili di piante di besto bianche, fibrose e biforcute che, secondo la pittoresca descrizione di Tuk, «…sembrano uccelli marci di giganti morti e sepolti a fior di terra». La mia guida ha un modo d’esprimersi tutto suo.
Solo nel tardo pomeriggio abbiamo visto il primo tesla. Da mezz’ora avanzavamo a fatica sul terreno coperto di cenere, attenti a non calpestare i teneri germogli di fenice e di frustafuoco che si aprivano coraggiosamente un varco nel terriccio fuligginoso, quando Tuk si è fermato di colpo e mi ha indicato un albero.
Il tesla, distante ancora mezzo chilometro, s’alzava per cento metri buoni, una volta e mezzo il più alto prometeo. In prossimità della cima presentava il caratterisco rigonfiamento a forma di cipolla: la galla accumulatore. Dai rami radiali al di sopra della galla pendevano decine di liane aureola color argento metallizzato, contro il cielo verde chiaro e celeste. Sembrava un’elegante moschea Gran Maomettana di Nuova Mecca empiamente inghirlandata d’orpelli.
«Dobbiamo sbrigarci a portare via di qui chiappe e ibridi» ha brontolato Tuk, insistendo per indossare subito l’equipaggiamento adatto alla foresta di fuoco. Abbiamo trascorso il resto del pomeriggio e la sera a camminare con le maschere osmotiche e i robusti stivali dalla suola di gomma, sudando sotto strati di gamma-tela simile a cuoio. I due ibridi, nervosi, drizzavano le lunghe orecchie al minimo rumore. Nonostante la maschera, sentivo odore d’ozono; mi ricordava i trenini elettrici con cui giocavo da bambino nei pigri pomeriggi di Natale a Villefranche-sur-Saône.
Questa notte ci accampiamo il più vicino possibile a una faglia di besto. Tuk mi ha mostrato come disporre il cerchio di barre parascariche, borbottando fra sé terribili ammonimenti e scrutando il cielo della sera in cerca di nubi.
Conto di farmi un buon sonno, nonostante tutto.
Giorno 84
Le quattro…
Santa Madre di Dio.
Per tre ore ci siamo trovati nel mezzo della fine del mondo.
Le esplosioni sono iniziate poco dopo mezzanotte: semplici schianti di fulmine, sulle prime. E contro ogni buonsenso, Tuk e io abbiamo sporto la testa dal lembo della tenda per guardare lo spettacolo pirotecnico. Sono abituato alle tempeste monsoniche del mese Matteo, su Pacem, perciò la prima ora di fulmini non mi ha fatto grande impressione. Solo lo spettacolo dei tesla lontani, infallibili punti focali delle scariche, dava un certo nervosismo. Ma in breve i giganti della foresta si sono messi ad ardere e a schizzare l’energia accumulata; e allora, proprio mentre tornavo a scivolare nel sonno nonostante il frastuono continuo, si è scatenata l’Apocalisse.
Nei primi dieci secondi di spasmi di scarica di violenta energia, gli alberi tesla hanno liberato almeno cento archi elettrici. A trenta metri da noi, un prometeo è esploso e ha lasciato cadere per terra, da cinquanta metri, dei tizzoni ardenti. Le barre parascariche sono diventate incandescenti e, fra i sibili, hanno deviato uno dopo l’altro archi di morte biancazzurra sopra e intorno il nostro piccolo accampamento. Tuk ha urlato qualcosa, ma la semplice voce umana non poteva superare quella furia di luce e di rumore. Una macchia di fenici rampicanti è esplosa in fiamme nelle vicinanze degli ibridi impastoiati e un animale atterrito — per quanto legato e incappucciato — si è liberato e si è lanciato oltre il cerchio di barre incandescenti. Subito una decina di fulmini scagliati dai tesla più vicini ha raggiunto lo sventurato animale. Per un secondo di follia giurerei d’avere scorto lo scheletro brillare dentro la carne ribollente; poi l’ibrido è schizzato in aria e ha semplicemente cessato d’esistere.