«Eh?» risposi. Siri aveva quasi sedici anni. Io, diciannove. Ma Siri conosceva il lento ritmo dei libri e le cadenze del teatro sotto le stelle. Io conoscevo solo le stelle.
«Cerca di rilassarti, marinaio» mormorò lei e mi tirò giù al suo fianco. «È solo un vecchio tommifalco a caccia. Stupido uccello. Torna, marinaio. Torna, Merin.»
La Los Angeles aveva scelto quel momento per alzarsi al di sopra dell’orizzonte e librarsi come un’aerea favilla verso ovest, fra le insolite costellazioni di Patto-Maui, il mondo di Siri. Rimasi steso accanto a lei e le descrissi il funzionamento della grande spin-nave a motore Hawking che rifletteva la luce del sole contro il fondale della notte sopra di noi; e intanto facevo scivolare più in basso la mano, lungo il suo fianco liscio, sulla sua pelle che sembrava tutta velluto ed elettricità, mentre contro la mia spalla il suo respiro si faceva corto. Chinai il viso contro l’incavo del suo collo, verso il dolce profumo dei riccioli.
«Siri» dico. E questa volta il nome mi viene spontaneo. Sotto di me, sotto la cresta della collina e l’ombra della tomba bianca, la folla si ferma a disagio. È impaziente. Vuole che apra la tomba, che entri, che abbia il mio momento d’intimità nel vuoto freddo e muto che ha preso il posto della calda presenza che fu Siri. Vuole che le dica il mio addio, per poter andare avanti con i suoi riti e le sue cerimonie, aprire il teleporter e unirsi alla Rete dei Mondi dell’Egemonia.
Al diavolo tutto. E al diavolo anche la folla.
Strappo un viticcio dell’erbasalice fittamente ritorta, mastico lo stelo dolciastro e guardo l’orizzonte in cerca del primo segno delle isole migratrici. Nella luce del mattino le ombre sono ancora lunghe. Il giorno è giovane. Mi siederò qui per un po’, a ricordare.
A ricordare Siri.
Siri era… che cosa? Un uccello, penso, la prima volta che la vidi. Portava una sorta di maschera ornata di piume lucenti. Quando se la tolse per unirsi alla quadriglia, la luce delle torce si rifletté sui suoi capelli biondo rame scuro. Era rossa in viso, le guance accese; anche dall’altra parte del parco affollato vedevo il sorprendente verde dei suoi occhi contrastare con il calore estivo del viso e dei capelli. Era la Notte della Festa, naturalmente. Le torce danzavano e scintillavano nella brezza costante che arrivava dal porto; la musica dei flautisti che sul frangiflutti suonavano per le isole di passaggio era quasi soffocata dallo sciacquio delle onde e dagli schiocchi delle bandiere nel vento. Siri aveva quasi sedici anni e la sua bellezza ardeva più luminosa di qualsiasi torcia del perimetro della piazza piena di folla. Mi aprii la strada fra i ballerini e andai da lei.
Per me, fu cinque anni fa. Per noi, più di sessantacinque. Sembra ieri.
Così non va bene.
Da dove iniziare?
«Che ne dici di andare a inzuppare il biscotto, ragazzo?» disse Mike Osho. Basso, tozzo, con il viso grassoccio che sembrava una caricatura furba di Buddha, Mike a quel tempo per me era un dio. Eravamo tutti degli dèi, dèi dalla vita lunghissima, se non proprio immortali, e ben pagati, se non proprio divini. L’Egemonia ci aveva scelti per equipaggiare una delle sue preziosi spin-navi a balzo quantico, perciò come potevamo essere meno di dèi? Solo, Mike… l’intelligente, brillante, irriverente Mike… era un po’ più anziano, e un po’ più in alto nel pantheon, del giovane Merin Aspic.
«Bah. Probabilità zero» risposi. Ci stavamo dando una ripulita dopo il turno di dodici ore nella squadra costruzione teleporter. Trasportare per navetta gli operai intorno al punto d’anomalia prescelto circa 163 mila chilometri fuori Patto-Maui, per noi era molto meno attraente di un balzo di quattro mesi dallo spazio dell’Egemonia. Durante la parte T-più del viaggio, eravamo stati dei maestri specialisti: quarantanove esperti astronavali alla guida di duecento passeggeri nervosi. Ora i passeggeri avevano indossato la tuta rigida e noi marinai ci eravamo ridotti a fare i camionisti, mentre la manovalanza sudava per mettere a posto l’ingombrante sfera di contenimento dell’anomalia.
«Probabilità zero» ripetei. «A meno che i terricoli non abbiano aggiunto un bordello all’isola da quarantena che ci hanno affittato.»
«No che non l’hanno aggiunto» sogghignò Mike. A me e a Mike spettavano tre giorni di licenza planetaria ma sapevamo, dalla predica del capitano Singh e dai gemiti dei nostri colleghi, che il tempo a terra l’avremmo trascorso in un’isola di sette chilometri per quattro, sotto l’amministrazione dell’Egemonia. Non si trattava nemmeno di una delle isole mobili di cui avevamo sentito parlare, ma solo di un’altra vetta vulcanica nelle vicinanze dell’equatore. Una volta lì, potevamo contare su una gravità vera sotto i piedi, su un’aria non filtrata e sulla possibilità di assaggiare cibo non sintetizzato. Ma anche sul fatto che gli unici rapporti con i coloni di Patto-Maui li avremmo avuti comprando manufatti locali al negozio duty-free; e anche quelli li vendevano degli specialisti commerciali dell’Egemonia. Parecchi nostri colleghi preferivano trascorrere le licenze sulla Los Angeles.
«E allora come lo inzuppiamo il biscotto, Mike? Le colonie sono vietate, finché il teleporter non funziona. Il che significa una sessantina d’anni, in tempo locale. O parli di Meg in spin-omaggio?»
«Stanami attaccato, ragazzo» disse Mike. «Se uno vuole, il modo lo trova.»
Mi attaccai a Mike. Eravamo solo in cinque, nella navetta. Per me era sempre entusiasmante scendere dall’orbita nell’atmosfera di un mondo vero. Soprattutto di un mondo simile alla Vecchia Terra come Patto-Maui. Fissai il lembo azzurro e bianco del pianeta finché i mari non si trovarono in basso e fummo nell’atmosfera, avvicinandoci al terminatore del crepuscolo in una gentile planata al triplo della velocità del suono.
Allora eravamo dèi. Ma anche gli dèi devono scendere dal loro trono, all’occasione.
Il corpo di Siri non smetteva mai d’affascinarmi. Quella volta nell’Arcipelago. Tre settimane in quel vasto e ondeggiante albero-casa sotto le albero-vele gonfie, con i delfini pastori che mantenevano l’andatura come battistrada, i tramonti tropicali che riempivano di meraviglie la sera, il tetto di stelle la notte, la nostra scia segnata da migliaia di mulinelli fosforescenti che riflettevano le costellazioni. Eppure è il corpo di Siri, quel che ricordo. Per qualche motivo — timidezza, gli anni di separazione — nei primi giorni della nostra permanenza nell’Arcipelago lei indossava due strisce di costume da bagno; e il morbido candore dei suoi seni e del basso ventre non si era scurito a uguagliare l’abbronzatura, prima che fossi costretto ad andarmene di nuovo.
La ricordo quella prima volta. Triangoli nel chiaro di luna, mentre eravamo distesi nella morbida erba, sopra Porto Primosito. I suoi calzoncini di seta impigliati in una trama d’erbasalice. C’era una modestia infantile, allora: la lieve esitazione di qualcosa donato anzitempo. Ma anche orgoglio. Lo stesso orgoglio che in seguito le permise d’affrontare la folla rabbiosa di Separatisti, sui gradini del Consolato dell’Egemonia a Sterna Sud, e di ricacciarli a casa pieni di vergogna.
Ricordo la mia quinta discesa planetaria, la nostra Quarta Riunione. Fu una delle rare volte in cui la vidi piangere. A quel tempo era quasi regale, nella sua fama e saggezza. Era stata eletta quattro volte a senatore della Totalità e l’Egemonia si rivolgeva a lei per avere consiglio e guida. Indossava la sua indipendenza come un manto regale e il suo fiero orgoglio non aveva mai bruciato più vividamente. Ma quando fummo da soli nella villa di pietra a sud di Fevarone, fu lei a girarsi. Ero nervoso, spaventato da quell’estranea potente, ma fu Siri… Siri dalla schiena dritta e dagli occhi orgogliosi, che girò il viso verso la parete e disse fra le lacrime: «Vattene. Vattene, Merin. Non voglio che tu mi veda. Sono una vecchia, floscia e cadente. Vattene!»