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Confesso che allora mi comportai da villano. Con la sinistra le imprigionai i polsi — mettendoci una forza che mi sorprese — e contemporaneamente le strappai il vestito. Le baciai le spalle, il collo, le deboli cicatrici del parto sul ventre teso, la cicatrice sulla coscia, ricordo di un incidente di skimmer avvenuto quaranta dei suoi anni prima. Le baciai i capelli che diventavano grigi, le rughe che segnavano le guance un tempo lisce. Le baciai le lacrime.

«Cristo, Mike, è di sicuro illegale» dissi, quando il mio amico tirò fuori dallo zaino il tappeto volante. Eravamo sull’isola 241, come i mercanti dell’Egemonia avevano romanticamente designato la desolata bruttura vulcanica scelta per la nostra licenza. Isola 241 si trovava a meno di cinquanta chilometri dal più antico insediamento coloniale, ma era come se fosse a cinquanta anni-luce. Nessuna imbarcazione locale attraccava lì, quando erano presenti gli uomini dell’equipaggio della Los Angeles o gli operai del teleporter. I coloni di Patto-Maui avevano alcuni antichi skimmer ancora in buone condizioni, ma per un reciproco accordo non c’erano voli sopra l’isola. A parte i dormitori, la spiaggia e il negozio duty-free, nell’isola c’era ben poco che potesse interessare a noi marinai. Un giorno o l’altro, quando la Los Angeles avesse portato nel sistema gli ultimi componenti e il teleporter fosse stato terminato, funzionari dell’Egemonia avrebbero fatto della 241 un centro commerciale e turistico. Ma fino a quel momento era un posto primitivo, con una griglia per l’atterraggio delle navette, degli edifici in pietra bianca locale appena completati, e un gruppetto di addetti alla manutenzione molto annoiati. Mike comunicò che saremmo andati a fare un’escursione di tre giorni nella parte più ripida e inaccessibile della piccola isola.

«Non voglio andare a fare un’escursione, per l’amor di Dio» protestai. «Preferisco restare sulla Los Angeles e attaccarmi allo stim-sim.»

«Chiudi il becco e seguimi» disse Mike. Come un membro minore del pantheon che seguisse una divinità più anziana e più saggia, chiusi il becco e gli andai dietro. Due ore di scarpinata su per i pendii fra cespugli dai rami pungenti ci portarono a una lama di lava alcune centinaia di metri più in alto dei frangenti rumorosi. Eravamo nei pressi dell’equatore d’un mondo in gran parte tropicale, ma in quella cengia esposta il vento ululava e battevo i denti dal freddo. Il tramonto era una macchia rossastra fra i cumuli scuri e non avevo nessuna voglia di trovarmi all’aperto, quando sarebbe scesa la notte.

«Forza» dissi. «Troviamo un riparo dal vento e accendiamo il fuoco. Non so come diavolo riusciremo a piantare la tenda, con tutte queste pietre.»

Mike si sedette e accese uno spinello. «Prova a dare un’occhiata al tuo zaino, ragazzo.»

Esitai. Aveva parlato in tono neutro, ma era il tono tipico di chi ti ha fatto uno scherzo, un attimo prima che ti cada addosso il secchio pieno d’acqua. Mi sedetti sui talloni e frugai nel sacco di nailon. Lo zaino conteneva solo vecchi cubi da imballaggio, in flusso-schiuma, per dargli forma. Più un costume d’arlecchino, completo di maschera e di campanelle alle babbucce.

«Sei… sei impazzito?» balbettai. L’oscurità stava scendendo in fretta. Forse la tempesta sarebbe passata a sud di noi, forse no. In basso i frangenti raspavano come una belva affamata. Se avessi saputo come trovare nel buio la strada per tornare al centro commerciale, avrei preso in considerazione l’idea di lasciare che i resti di Mike Osho nutrissero i pesci alla base dello strapiombo.

«Adesso guarda cosa c’è nel mio zaino» disse Mike. Buttò via alcuni cubi di flussoschiuma e poi tirò fuori un po’ di bigiotteria del tipo che avevo visto fabbricare a mano su Vettore Rinascimento: una bussola inerziale, una penna laser che la Sicurezza della nave poteva o non poteva considerare arma nascosta, un altro costume d’arlecchino — confezionato per adattarsi al suo fisico più rotondo — e un tappeto volante.

«Cristo, Mike» dissi, passando la mano sul raffinato disegno dell’antico tappeto. «È di sicuro illegale.»

«Non ho visto funzionari delle dogane, quaggiù» sogghignò Mike. «E sono proprio convinto che i locali non abbiano agenti addetti al controllo del traffico.»

«Sì, ma…» Non conclusi la frase e srotolai completamente il tappeto. Era largo poco più d’un metro, lungo circa due. La ricca stoffa era sbiadita dagli anni, ma i fili di volo erano ancora lucenti come rame appena estratto. «Dove l’hai preso?» domandai. «Funziona ancora?»

«Su Garden» rispose Mike, rimettendo nel suo zaino i costumi. «E funziona.»

Era trascorso più di un secolo da quando, su Nuova Terra, il vecchio Vladimir Sholokov — emigrante della Vecchia Terra, studioso di lepidotteri e ingegnere di sistemi EM — aveva fabbricato per la sua bellissima nipotina il primo tappeto volante. Secondo la leggenda, la nipotina aveva disprezzato il regalo; ma nel corso degli anni il giocattolo aveva conquistato una popolarità quasi assurda, più fra gli adulti danarosi che fra i bambini, finché non era stato proibito nella maggior parte dei mondi dell’Egemonia. Pericolosi da maneggiare, uno spreco di monofilamenti schermati, quasi impossibili da guidare in uno spazio aereo controllato, i tappeti volanti erano diventati delle curiosità riservate alle fiabe, ai musei e a qualche mondo coloniale.

«Ti sarà costato una fortuna» dissi.

«Trenta marchi» rispose Mike, sedendosi al centro del tappeto. «Il vecchio negoziante del Mercato Carvnel pensava che non valesse niente. Ed era vero… per lui. L’ho portato a bordo, l’ho caricato, ho riprogrammato i chip inerziali, et voilà!» Mike toccò l’intricato disegno e il tappeto s’irrigidì, sollevandosi di quindici centimetri al di sopra della cengia rocciosa.

Lo fissai, dubbioso. «D’accordo» dissi. «Ma se…»

«Niente paura» tagliò corto Mike. Con impazienza indicò la parte di tappeto dietro di sé. «È a piena carica. So manovrarlo. Forza: monta su o fatti da parte. Voglio muovermi prima che arrivi la tempesta.»

«Ma non credo…»

«Forza, Merin. Deciditi. Ho fretta.»

Esitai ancora un paio di secondi. Se ci scoprivano a lasciare l’isola, ci buttavano fuori a calci dalla nave. E allora il lavoro sulla nave era tutta la mia vita. L’avevo deciso quando avevo firmato il contratto per otto anni di missione su Patto-Maui. Inoltre, ero a duecento anni-luce e a cinque e mezzo anni-balzo dalla civiltà. Anche se ci riportavano nello spazio dell’Egemonia, l’intero giro ci sarebbe costato undici anni di amici e di famiglia. Il debito temporale è irrevocabile.

Strisciai dietro Mike sul tappeto sospeso a mezz’aria. Lui sistemò fra noi gli zaini, mi disse di reggermi e toccò il disegno di volo. Il tappeto si alzò di cinque metri sopra la cengia, virò rapidamente a sinistra e schizzò verso l’oceano aperto. Trecento metri più in basso, le onde scagliavano schizzi bianchi nell’oscurità sempre più fitta. Ci alzammo ancora sopra l’acqua smossa e puntammo a nord, nella notte.

In simili secondi di decisione a volte si compiono interi futuri.

Ricordo che parlavo a Siri, durante la Seconda Riunione, poco dopo la visita alla villa sulla costa, nei pressi di Fevarone. Camminavamo sulla spiaggia. Alón aveva avuto il permesso di restare in città, sotto la sorveglianza di Magritte. Andava benissimo. Mi sentivo un po’ a disagio, con il bambino. Solo l’innegabile solennità degli occhi verdi e l’imbarazzante familiarità dei corti ricci scuri e del naso all’insù, lo legavano a me… a noi… nella mia mente. Quei tratti, e il rapido, quasi ironico, sorriso che lo sorprendevo nascondere a Siri quando lei lo sgridava. Era un sorriso troppo cinico, divertito, perspicace, per essere così abituale in un bambino di dieci anni. Lo conoscevo bene. Pensavo che simili atteggiamenti si apprendessero, non che fossero ereditari.